Che la storia gialla, mystery, thriller o comunque la si voglia chiamare, sia uno dei frutti della modernità è opinione ormai consolidata. Tanto da far arrivare alcuni critici entusiasti, spinti dal lodevole desiderio di nobilitare in qualche modo la materia, a dichiarare che proprio questo genere sia anzi “il” genere per eccellenza dei tempi nostri, lo scandaglio esatto con cui penetrare nelle viscere della nostra società ammalata e contraddittoria.

Una società ormai completamente laicizzata, in cui il male ha perduto ogni suo aspetto metafisico o componente religiosa per ridursi a puro epifenomeno patologico di un grande conflitto di classe, scatenato intorno al possesso o al controllo di beni materiali. Oppure al dominio dei sentimenti e del corpo dell’essere amato, altra forma di “merce” che può essere scambiata, sottratta, rapinata. Di quanti omicidi (e che siano sempre omicidi e nulla di meno, secondo le auree regole di S.S. van Dine) abbiamo letto intorno ad un’eredità contesa, quante ville nella brughiera sono state funestate da un tradimento subdolo, foriero poi di violenza. Un figlio segreto da occultare, un diamante nefasto da nascondere, una moralità corrotta dal vizio del gioco da salvare dal pubblico ludibrio: tutte violazioni di un codice moderno che difficilmente troverebbero posto nel manuale delle penitenze di un confessore secentesco.

             

Una società, la nostra, disertata ormai dagli dei, in cui il sulfureo peccato è stato sostituito dal più modesto e borghese delitto. E se questa è la nostra condizione, allora è ovvio come allo ierofante, al filosofo o all’esorcista, medici della corruzione delle anime, si sia sostituito il poliziotto o l’investigatore, terapeuti di un male molto più banale e accessibile.

Decidere se questo sia vero, o se non abbiano invece ragione quanti affermano come ben più antica sia la storia del genere, e che già nelle letterature classiche o nei drammi elisabettiani siano riconoscibili i precursori degli Auguste Dupin o degli Sherlock Holmes e dei Rouletabille, meriterebbe ben altra trattazione. Certo i signori citati sono antenati nobili, studiatissimi e all’infinito imitati: ma come tutti i capostipiti di auguste prosapie vengono celebrati dai loro discendenti forse più per il blasone cui hanno dato origine che non per il loro valore intrinseco. Li amiamo e rispettiamo, ma in fondo pensiamo che poi il giallo, quello vero, sia un altro, sia la materia dura degli Hammett e dei Chandler, dei Quentin e via per li rami fino agli Ellroy e ai Lansdale.

Che insomma i nonni siano della gran brava gente, con i loro baffi a manubrio e le loro lenti d’ingrandimento nelle tasche interne dei gabbani, ma troppo teneri per darci davvero un quadro del mondo nostro: tanto che i francesi, sempre abili nell’escogitare formule, hanno dovuto inventarsi il “noir” per trovar casa ai moderni. E gli inglesi il termine “cozy” per catalogare invece gli antichi e i loro continuatori, con tutto il bric-à-brac di teiere, vecchie zie ficcanaso, aiuole di giacinti con cadavere sotterrato.

             

Christopher Lee nel ruolo di Fu Manchu
Christopher Lee nel ruolo di Fu Manchu
Ma stanno proprio così le cose? Forse sì, se ci limitiamo a uno dei corni del dilemma, la figura dell’investigatore. Ma in ogni buona storia di tensione che si rispetti il ruolo principe è sempre quello dell’antagonista. Il colpevole, il cattivo, il villain. Anzi, se proprio volessimo esercitarci ancora al gioco di che cos’è il giallo? basterebbe questa risposta:  il giallo è quella narrazione in cui il male è più interessante del bene, e i cattivi più intriganti dei buoni. Ecco che uno studio un po’ più attento dei nostri antenati ci riserverebbe senz’altro delle sorprese. Perché se i buoni non vanno molto oltre il deprecabile amore per l’alcol di Dupin, o l’altrettanto criticabile dipendenza dalla cocaina di Holmes (peraltro assunta in dosi così modeste da suscitare oggi tenerezza), i cattivi dei primordi sono di tutt’altro spessore.

E per di più partoriti dalla fantasia degli scrittori fin de siècle in un numero esorbitante e insospettato, anche per i frequentatori più incalliti di librerie specializzate.  

Ovviamente, come per tutte le famiglie numerose, esiste anche in questo caso un capostipite, un archetipo narrativo la cui impronta genetica si riscopre via via nei discendenti alterata e mescolata, ma sempre riconoscibile. E trattandosi non a caso di un genere letterario dalle origini segnatamente anglosassoni, non è strano che sia proprio uno dei peggiori esempi della razza di Albione a svolgere questo ruolo: l’immortale Riccardo III.

Riccardo III
Riccardo III
Shakespeare ci consegna in lui già confezionato il modello del perfetto malvagio: spietato, è ovvio. Invaso da una brama di potere sostenuta da follia lucida. Capace di architettare una trama sottile in cui invischiare gli avversari, affascinante come un serpente e insieme imperfetto, fragile perché attraversato dalla faglia di desideri segreti, immensi e insondabili. Orrendo sul piano fisico ma anche, ed è questo uno dei tratti ricorrenti dell’archetipo, capace di mascherare questo orrore e renderlo invisibile agli occhi delle vittime. Il suo è un modello che ha talmente successo da ritrovarlo già replicato in alcuni tratti nel Monaco di Lewis, e poi ancora in Moriarty, e poi (saltando infinite occorrenze minori) nei due geni malvagi, i due immortali dottori del crimine Mabuse e Fu Manchu che rappresentano già da soli una magnifica epitome di quella globalizzazione del male che vede oggi il suo trionfo.

       

Kipling ha scritto che mai l’Occidente e l’Oriente si daranno la mano. Ma pochi versi dopo ha scritto anche che non c’è Oriente o Occidente, quando due uomini forti si guardano in faccia.

E che succede quando a farlo sono due menti superiori e malvagie?

(à suivre)