Secondo lungometraggio di Brad Anderson, dopo il bellissimo Session 9, il thriller The MachinistL’uomo senza sonno arriva nelle sale italiane anticipato dal solito enorme battage pubblicitario cui la Filmax di Brian Yuzna ci ha abituati. Nei teaser e nei trailer, che hanno beneficiato di più di un passaggio al giorno negli spazi dedicati alle anteprime cinematografiche, come numi tutelari e principali ispiratori, si citano Lynch e Polansky. La platea si carica. Le aspettative sono tante… c’è da bissare, magari facendo anche meglio, il successo di critica del primo film. Purtroppo la storia non va per il verso giusto: qualcosa non funziona!

 

Trevor è operaio in una fabbrica metalmeccanico, addetto alla catena di montaggio, responsabile per la produzione di componenti di macchina non meglio specificati. Diviso fra la solitudine del suo appartamento e l’alienazione sul posto di lavoro, il protagonista non dorme da un anno esatto e progressivamente, eroso dall’insonnia, sta quasi scomparendo tanto s’è fatto magro. Di donne neppure l’ombra… eccettuata la relazione pseudo-sentimentale intrecciata con una giovane prostituta o la strana confidenza che lo lega alla cameriera di un bar dell’aereoporto. Se possibile, tutto peggiora dopo che nella sua esistenza piomba un oscuro personaggio, Ivan, operaio anch’egli nella fabbrica: Trevor causa un incidente e fa perdere un braccio a un suo collega, strani post-it cominciano a comparire ovunque, visioni e allucinazioni lo tormentano. Per venire a capo dell’intera vicenda, Trevor è chiamato a ricomporre questo puzzle allucinato e distorto cercando dentro di sé la verità.

 

Un’opera ambiziosa, quella di Anderson, non c’è che dire. Il film si inserisce degnamente come borderline in quella nebbiosa linea di confine tra l’horror e il thriller psicologico, richiamandosi costantemente… e questo è innegabile, a padri putativi come David Lynch e Roman Polansky, ma strizzando anche l’occhio al David Cronenberg di Spider e soprattutto, nella letteratura, alle opere di Patrick McGrath e, molto più indietro nel tempo, Franz Kafka. Kafkiana è tutta la vicenda: nel percorso di comprensione e ricerca delle motivazioni di tutta una persecuzione sta condensata la lezione del Maestro cecoslovacco e del suo Processo. Grandissime e assolutamente giustificate, quindi, le aspettative che animavano il pubblico. In tutta sincerità, purtroppo, si tratta di aspettative il più delle volte frustrate. La sceneggiatura decolla immediatamente, la tensione monta, sensazioni come paranoia, claustrofobia, disagio crescono col passare dei minuti… fino ad arrivare a sgonfiarsi proprio con la stretta finale, afflosciandosi come un palloncino vuoto negli ultimi dieci minuti. Tutti i castelli ipotetici costruiti dallo spettatore crollano… e questo è innegabilmente un bene. Purtroppo però, il colpo di scena si rivela un boomerang fatale: la scelta dello sceneggiatore è tanto scontata da essere quella che immediatamente lo spettatore ha scartato, tant’è banale.

Dal punto di vista della realizzazione, poi, il film può colpire e impressionare positivamente chi si avvicina per la prima volta alle produzioni iberiche della Filmax, ma delude decisamente chi conosce bene lo stile di Anderson, Balaguerò e Plaza. I tick tipici dei lavori spagnoli dell’ultimo lustro convivono tutti allegramente in questa pellicola: un montaggio sincopato, singhiozzante, fatto di stacchi veloci alternati a dilatazioni temporali suggestive ma alla fine insostenibili, la fotografia sepia, satura di colori ingrigiti, polvere e sabbia, l’uso di ambientazioni meta-urbane spesso sordide e destrutturanti. Un degno e inquietante cocktail, che, purtroppo, non colpisce più. Sarebbe il caso di spiegare, ai signori della Filmax, che non cambiando le regole del gioco è sempre necessario cambiare le carte, non solo rimescolare il mazzo. Gli stilemi dei Thriller prodotti dalla casa di Yuzna sono sempre gli stessi: paranoia e disturbo mentale, ricerca di un passato che è sepolto nell’inconscio, ambientazioni al limite dell’horror, inquietudine strisciante… e fin qui tutto bene. Quando però gli schemi si mantengono identici e iniziano a non cambiare neppure le modalità di realizzazione, il modo di montare un film, di realizzarlo fotograficamente, il rischio di vedere sgretolarsi l’interesse degli spettatori è enorme. La scena spagnola, se di scena davvero si può parlare, insomma, rischia di cannibalizzarsi nel giro di pochissimi anni, divenendo auto-referenziale, perdendo la capacità di interessare, iniziando a sfornare una serie di prodotti fotocopia buoni appena per il mercato dell’home video. Un disastro, allora, questa pellicola di Anderson? Non completamente. Enorme menzione di merito va fatta al casting e alla interpretazione degli attori. Ottima la scelta della squadra da schierare in campo. Christian Bale, insuperabile protagonista di American Psycho, supera sé stesso nel ruolo di Trevor. Fisicamente irriconoscibile, esiguo, quasi evanescente nella anoressica magrezza di neppure 50kg, non si accontenta di recitare col corpo ma regala una interpretazione psicotica, paranoide… capace di affascinare e magnetizzare l’attenzione. Degna comprimaria, nel ruolo della prostituta, una Jennifer Jason Leigh corposa, umorale, dolce e inquieta… oltre che in smagliante forma. Completa il terzetto un Michael Ironside, icona del b-movie horror, anch’egli ormai sdoganato dal ruolo di sosia in svendita di Jack Nicholson.

Gli spettatori che non conoscano le produzioni Filmax e siano intenzionati a vedere un thriller ben realizzato, interpretato in modo magistrale dai protagonisti potranno al massimo rammaricarsi per un finale banale, ma si troveranno comunque davanti un prodotto ben confezionato. Chi, invece, conosca già le produzioni iberiche degli ultimi 5 anni non potrà far altro che rammaricarsi con noi per l’ennesima occasione sprecata… per l’ennesimo de-ja vu.