Come quasi tutti i romanzi “duri” di Simenon, anche La prigione inizia con personaggi “comuni” che si trovano ad affrontare una situazione che ne sconvolgerà l’esistenza.

Il direttore di un popolare settimanale di costume nella Parigi degli anni Sessanta, Alain Poitaud, trova ad attenderlo sulla porta della sua lussuosa abitazione un agente di polizia che gli pone una serie di domande sulla moglie non ancora rientrata a casa.

Il vicecommissario al quai des Orfévres lo informa che la moglie ha ucciso la sorella quello stesso pomeriggio. Dietro il perbenismo borghese e l’affermazione sociale si nascondono passioni segrete, tradimenti, indifferenza. Il protagonista è un anaffettivo, amorale, centrato solo su sé stesso e i suoi bisogni da soddisfare a qualsiasi costo, calpestando le vite degli altri. La moglie non comparirà mai nel romanzo ma sarà sempre presente nei pensieri di Alain che ne scandaglierà il comportamento risalendo all’origine della loro storia quasi decennale.

La tragica vicenda non opprime Poitaud perché ama sua moglie ma perché in due soli giorni assiste alla fine del suo mondo. Credeva di dominare tutti, dai “ragazzi” del giornale alle segretarie e centraliniste che si portava a letto appena poteva, si circondava a tutte le ore di persone perché non era in grado di stare solo con i suoi pensieri. Domina anche sulla moglie, una ragazza carina che lo asseconda in tutto. Quando scopre la verità sul gesto commesso dalla moglie e contemporaneamente prende coscienza che lei non lo vuole più vedere, il suo mondo crolla. In una magistrale descrizione dei pensieri e delle azioni del suo personaggio, Simenon ci regala l’ennesimo capolavoro. Poitaud si congeda dalla vita dopo aver percorso la sua personale via crucis: l’ultimo rapporto sessuale occasionale con la nuova domestica, un saluto al suo passato rappresentato dai vecchi genitori che compatisce per la vita mediocre, un saluto al presente costituito dalla redazione della rivista che ha lanciato e dal collega che ha avuto un ruolo importante quanto inconsapevole nel dramma che sta vivendo, infine un addio al futuro, rappresentato dal figlio di cinque anni che non lo accoglie affettuosamente perché è abituato a vivere con estranei invece che con i genitori. A ogni “stazione della via crucis” si ferma in un bar a bere un doppio whiskey per darsi il coraggio di varcare l’ultima frontiera.