Non c’è molto da stupirsi se, periodicamente, torno a raccontare le mie storie ambientandole a Parigi. È una città dove ho trascorso momenti importanti, ci vado spesso, poi c’è tutta un cultura che, per aspetti differenti, mi ha molto influenzato. Più di venti anni fa ho cominciato ad andarci perché era là che si praticavano gli sport da combattimento come li concepivo io. Boxe Thai, Full Contact, BF Savate, interdisciplinarietà. Gente ‘vera’, gente ‘dura’. Forse non tutti adamantini. Taxisti, scaricatori, con i maghrebbini era come fare un incontro a ogni allenamento. Poi si usciva. Birra per noi, ZamZam cola per gli islamici, kebab, musica, les Boites de Nuit, inevitabilmente le nanas…. Un mondo che ho sfiorato perché un animale da ring, non lo sono stato mai. Ma ho visto e conosciuto realtà diverse da quelle che trovavo qui in Italia. Al tempo stesso c’erano alcuni dei miei miti che s’incrociavano a Parigi. Il Polar francese, la mala, i vecchi film in bianco e nero. Romanzi che oggi si fatica a trovare anche nei negozi di discount a due passi da Saint Germain. La Parigi di Malet l’anarchico della trilogia nera, ma anche quello di Nestor Burma con la sua spavalda sfacciataggine. La Parigi dei misteri della Serie Noire di Daumel. E tutto questo s’incrociava con l’Indocina, la mafia dei Corsi … più recentemente con i film di Marchal, i romanzi del Dobermann, quelli di Manchette, Posizione di tiro soprattutto. Insomma tutto un calderone di vita vissuta, di esperienze sognate, di avventure lette e viste al cinema che giravano intorno alla stessa città dove trovava quell’ispirazione che a volte, a Milano, forse perché ci vivevo da molto, troppo tempo senza guardarla veramente, mi sfuggiva. Oggi ho capito che certe cose ci sono anche qui, ma Parigi resta sempre il rifugio dove vado a cacciarmi quando penso a una storia davvero mia. E lì rivedo quei film, quegli albetti economici, i film che una volta proiettavano nei cinema di quartiere che sembrano scomparsi ma, a guardarci bene, ci sono ancora. Come le brasserie dove si può cenare con un uovo sodo, qualche fetta di carne salta e un demì pressìon aspro, seduti a un tavolino nella penombra. L’atmosfera del Polar che è una contrazione di roman policier e che si differenzia dal noir che, pur essendo un termine francese, fa riferimento più al nero americano. Cugini ma differenti. Il Polar ha una gamma di storie più variegata, incrocia cinema e romanzi perché moltissimi autori della Serie Noire sono diventati poi registi e attori. Una interdisciplinarierità che, purtroppo, qui in Italia è ancora lontanissima da raggiungere. E da qui la voglia di ripercorrere in varie puntate di queste ‘ conversazioni sul nero’questo sentiero dell’immaginario. Strada tortuosa e non sempre lineare ma ricca di suggestioni che hanno formato me e forse sarà gradito anche a voi seguire. Uno degli autori che ho più amato è stato Josè Giovanni che, guarda caso, era uno pseudonimo. Un po’ come quelli che tante volte volontariamente o meno ho usato anche io. Josè Damiani nasce nel 1923 e muore nel 2004. Dire una vita difficile è riduttivo. Da ragazzo frequenta la mala di Pigalle e finisce invischiato in un racket, trascinato dal fratello maggiore e da uno zio. Un bruttissimo pasticcio dove ci scappa il morto. E Josè, fedele, al codice della pégre, della Malagrossa come l’avrebbe definita Le Breton in un suo romanzo, finisce dentro e non dice una parola. Condannato a morte (in Francia c’era ancora la ghigliottina!) viene graziato e poi liberato dopo 11 anni per buona condotta. Nel ’56 esordisce con il suo primo romanzo Il Buco che racconta l’ambiente carcerario e un tentativo di fuga in realtà mai portato a termine. Diventa l’ultimo film di Jacques Becker: una storia disperata scandita da fragori ossessivi di un carcere e dalla geometria della fuga. Josè Giovanni, così si fa chiamare, prosegue la sua carriera di scrittore e presto approda al cinema. A volte regista, a volte sceneggiatore, è un professionista della ‘narrativa di genere’ se proprio vogliamo usare questa definizione che trovo odiosa quanto la pretesa che esista una ‘narrativa letteraria’ o autoriale. Di fatto dai suoi libri vengono alcuni dei migliori film del Polar di quegli anni. Anche se Giovanni non fu autore molto amato dalla critica del suo tempo, salvo forse per Ultimo domicilio conosciuto che aveva una coloritura politica che lo redimeva agli occhi dei critici. Eppure ricorderei almeno il Clan dei marsigliesi e Lo Zingaro (preso sempre da un suo romanzo Histoire de Feu), un polar adrenalinico con un Delon molto simile a Luciano Lutring, al meno nell’iconografia del bandito. Perché di storie di banditi si tratta. Anche Le Deuxieme Souffle (Tutte le ore feriscono l’ultima uccide di Melville che ha avuto anche un recente remake snobbato, a torto, con Daniel Auteil). Tra tutti i film tratti dai suoi romanzi mi piacere ricordare Asfalto che scotta (Classe tout risques, 1960) diretto da Calude Sautet, regista un po’ estraneo al filone ma che riuscì a interpretarne innovativamente certi codici. Abel (Lino Ventura) è un bandito, di quelli veri. Con la famiglia e la sfortuna addosso che lo segue da tutta una vita. Cerca di mandare la moglie ei figlioletti in Francia prima di tentare l’ultimo colpo a un portavalori. Sorpresa (per noi): l’azione comincia a Milano, fotografata tra la Stazione centrale, San Babila e dintorni sino alla periferia. Quasi una premonizione del nero scerbanienchiano, del poliziottesco e... sì diciamolo, di alcune atmosfere delle ultime Storie di Gangland del Professionista. Al fianco del roccioso Lino Ventura, un polacco suo ex compagno di cella, Stan Krol nel ruolo di Naldi, un altro pezzo duro. Il colpo frutta poco ma le cose si mettono ancor peggio quando i malavitosi in fuga e la famiglia di Abel approdano di notte sulla costa di Mentone. Sparatoria con la polizia e Abel si ritrova solo coni figlioletti. Il compagno e la moglie sono morti. Pochi sguardi e poi di nuovo in fuga. Gli eroi del Polar hanno uno spessore che sta tutto tra le pieghe dei brevi intervalli tra un ’azione e l’altra. Eppure nella storia di Abel c’è un uomo alla deriva che s’aggrappa a tutto pur di sopravvivere. Cerca aiuto da amici che non possono e non vogliono far più di tanto per lui. Stringe sodalizio con un giovane scapestrato (Belmondo scelto per interpretare un personaggio che nel romanzo originale era figura minore e acquista potenza grazie al recente successo di Au Bout du Souffle) ma, alla fine, tra vendette, colpi sbagliati e inutili tentativi di riprendere il mare aperto finisce a girare - in un finale anticlimatico- per le vie di una Parigi grigia dove verrà catturato, condannato e giustiziato dalla polizia. Una maschera tragica che altri registi riprenderanno a loro modo. John Woo per esempio non ha mai nascosto la sua passione per questa storia e, in parte se ne ritrova traccia, in A Bullet in The Head anche se il regista di Hong Kong è influenzato da iperboli pirotecniche che risolvono la storia a suon di pistolettate. Sautet tornerà raramente al Polar se si eccettuano Corpo a corpo e il Commissario Pelissier che, però, è tutto giocato sul rapporto tra Piccoli e la magnifica Schneider e ricrea un poliziesco algido e non molto credibile. Asfalto che scotta resta un Polar, con le sue regole, il suo ritmo. La sfaccettatura del personaggio principale quanto quella dei comprimari non è mai invasiva. Abel è un uomo segnato, un solitario ma anche un uomo d’azione. Spara diritto e veloce, senza rimpianti. L’amarezza, il rimorso forse emergono dopo, quando l’azione è terminata. Nel momento della violenza diventa feroce come Pierrot le Fou perché i contorcimenti psicologici mal si conciliano con il ritmo di una storia avvincente e la realtà della ‘giungla d’asfalto’. Accenno non casuale a un grande noir americano di cui questo film è al tempo stesso parente ma anche versione europea, espressione di un ‘sentire’ il genere in maniera differente che, negli anni, è diventata anche la base del mio lavoro… a suivre…