Per questo mese di aprile abbiamo ricevuto un invito inaspettato, che abbiamo accettato di buon grado. Perciò, per la prima volta, l'appuntamento di questo mese non si svolge nel nostro abituale salotto letterario, ma in gita presso una cittadina, ambientazione del romanzo di cui parleremo. L’autore è Eliott Parker, alla sua prima volta editoriale con Penelope Guzman. Il Colpevole (libri/7903/).

Come sai, Eliott, il romanzo non mi è piaciuto e non mi ha convinto, ma proprio per questo sono contenta di potermi confrontare con te in questa occasione.

E' un piacere anche per me Chiara. Ovviamente mi dispiace che il romanzo non ti sia piaciuto ma proprio per questo confrontarmi in questa intervista diventa ancora più interessante e stimolante. Quindi, iniziamo!

Cominciamo, appunto, dall'ambientazione del tuo romanzo. Dove ci troviamo di preciso? Nel libro il paese di Penelope non ha un nome, lo si può collocare in America, ma niente di più. Come ho scritto mi ha ricordato, a tratti, la Cabot Cove della Signora in Giallo. Vuoi parlarci di questo paese e anticiparci dove ci porterai in questa gita?

Penelope vive in una cittadina di media grandezza degli Stati Uniti. Il nome della città non viene, almeno per ora, svelato ma in fondo non è poi così importante ai fini della storia. Se c'è un riferimento alla Signora in Giallo è involontario, non conosco così bene il telefilm. La gita ci porterà a conoscere da vicino i luoghi di Penelope, dove vive la nostra eroina e dove sono ambientati i momenti più importanti e appassionanti del romanzo.

Scusami, ma la domanda sorge spontanea: perché non scrivere un romanzo ambientato in Italia? Non sarebbe stato più facile, soprattutto per un esordiente, parlare di luoghi vicini e sicuramente più conosciuti?

Per rispondere alla domanda occorre fare un passo indietro, e cioè a come è nata Penelope e al mio modo di scrivere. Per me infatti la scrittura è un modo per comunicare agli altri le fantasie che albergano nella mia mente. Condividendole con i miei lettori queste fantasie si trasformano a loro volta, in modo che ognuno si costruisce il "suo" romanzo aggiungendo elementi alla trama che io ho indicato. Essendo quindi per me lo scrivere la traduzione di un'esperienza interiore non ho in realtà deciso di ambientare il romanzo negli Stati Uniti ma mi è semplicemente venuto in mente così. Penelope è affiorata nella mia mente in quella città e se avessi fatto qualcosa per cambiarla avrei alterato quella fantasia. Con ciò ovviamente non voglio dire che la fase di scrittura sia una pedissequa trascrizione delle mie emozioni interiori e che non vi sia alcuna fase di rielaborazione successiva. Questa rielaborazione c'è ma è leggera e non avrebbe potuto cambiare un elemento basilare quale la location del romanzo. Quindi, per riassumere: ho scelto una città non italiana non per un motivo logico razionale ma semplicemente perché quella location mi è venuta alla mente così.

A questo discorso mi viene automatico legare anche una domanda che ti avranno fatto in tantissimi? Perché scrivi sotto pseudonimo? E perché hai scelto proprio questo nome?

La scelta di uno pseudonimo è un piccolo vezzo che mi sono concesso. Volevo un nome da giallista e quindi ho pensato a un nome anglosassone. Ne ho vagliati tanti e poi ho scelto Eliott Parker. Ripensandoci a posteriori credo di aver scelto uno pseudonimo anche per tenere separata la mia identità di scrittore dal resto della mia vita.

Come prima tappa della nostra gita mi piacerebbe visitare lo studio di Penelope, che ne dici? La troveremo già lì?

Beh, dal momento che siamo nella tarda mattinata penso di sì. Penelope non è propriamente una tipa mattiniera e le piace poltrire sotto le coperte, al caldo. A quest'ora però se non la dovessimo trovare in ufficio sarà perché è andata a visitare una scena del crimine o a interrogare qualche testimone. D'altronde Penelope lo dice spesso, fare un'indagine meramente documentale e scientifica, senza visitare i luoghi del crimine e parlare direttamente con i testimoni e i presunti colpevoli non funziona, è come fare l'amore per corrispondenza. Occorre infatti un contatto diretto, sul posto per capire effettivamente come possono essere andate le cose. Comunque siamo fortunati, Leroy, il suo fidato segretario, mi ha appena detto che è in studio e che può riceverci. Solitamente ci vorrebbe un appuntamento ma con me farà un'eccezione…

Purtroppo Penelope paga, secondo me, il fatto di non godere di una sua vera identità, ma di essere costruita su una serie di clichè e stereotipi presi dal cinema, dalla letteratura. Quanto e chi ti ha influenzato in tal senso?

Sono stato certamente influenzato da molti personaggi soprattutto televisivi. Se pensiamo a Miss Parker di Jarod il Camaleonte, Lily Rush di Cold Case o Juliette di LOST, per fare solo alcuni esempi, ritroviamo certamente in Penelope tratti di quei personaggi. La mia fantasia è stata certamente ispirata da questi e altri modelli per crearne uno nuovo e originale, cioè Penelope.

Ma adesso è meglio andare, Chiara… Penelope si sta un po' alterando e sai bene che quando tira fuori il suo lato più impulsivo è difficile tenerle testa…

Peccato, mi sarebbe piaciuto chiederle altr eocse, ma, se non è possibile, mi piacerebbe visitare la scena del crimine, proprio come fa Penelope al principio della sua indagine. Tu come ti sei documentato sugli aspetti "tecnici" riguardanti la storia?

Sono partito dalle mia cultura televisiva. CSI e gli altri telefilm del filone scientifico – giudiziario hanno fatto scuola in tal senso. Ho poi approfondito via via alcuni aspetti per dare coerenza alla storia, in quella fase di rielaborazione di cui ti ho parlato prima. In questo Internet è per uno scrittore una miniera d'oro. Ho però aggiunto anche elementi nuovi, per esempio il collezionismo di antichità industriali, proprio perché il mondo di Penelope ha molti punti di contatto con il nostro ma non vi coincide esattamente. Una parte del suo mondo ha elementi nuovi e diversi rispetto alla nostra realtà di tutti i giorni e probabilmente una parte del fascino del romanzo deriva proprio da questo.

Da dove nasce l'idea di questo romanzo?

Come ti accennavo da una passeggiata nella mia città. Ho immaginato una giovane donna, forte e determinata da una parte, femminile e dolce dall'altra. Due elementi che raramente si trovano ben amalgamati in eroine al femminile. L'ho immaginata sul suo Maggiolone cabrio, capelli al vento. Ho visto delle immagini e da quelle immagini è nata la storia. E' un processo di fantasia e non logico razionale.

E la necessità di scrivere più in generale?

Eliott Parker
Eliott Parker
Non ho una vera e propria necessità di scrivere, se non lo facessi starei bene lo stesso, almeno per ora (chissà, forse in futuro la scrittura mi darà dipendenza…). Ho iniziato a scrivere stimolato da mia moglie che ha letto alcuni miei brevi componimenti e mi ha spronato a continuare. Sono uno scrittore "tardo", prima dei quarant'anni non avevo scritto quasi niente se non alcuni racconti gialli verso i dodici – quattordici anni.

Senti che ne dici di offrirmi qualcosa da bere? Dove potremmo andare di bello?

Il miglior locale della città è il Tannish, una birreria irlandese. Il proprietario è Mack, una persona che a prima vista non ti trasmette molto ma che poi, quando inizi a parlarci, si rivela acuta e interessante. E poi ha delle birre fenomenali, alcune artigianali che importa direttamente dall'Europa. Non ti nascondo che questo posto me lo ha consigliato Penelope, ci viene spesso soprattutto quando cerca (a volte invano) di staccare. E' un posto magico per lei.

Ora che siamo seduti qui davanti a una birra fresca, permettimi di parlarti di quello che davvero mi è piaciuto meno: lo stile. In totale trasparenza l'ho trovato piuttosto pesante, ripetitivo, lento. Per quanto credo che in parte questo sia "lecito" per un esordiente, dall'altra parte, mi pare in realtà un limite forte per il tuo lavoro.

Paradossalmente lo stile è ciò che mi piace di più del mio romanzo anche se capisco che una parte dei lettori possa non apprezzarlo. Il mio stile di scrittura va inquadrato in una letteratura "melodica", dove la frase acquista ritmo e musicalità interiore proprio in virtù di quelle che possono a prima vista apparire come ripetizioni ma che in realtà sono strutture volute. Leggendo un romanzo quale Lo scherzo di Kundera si può farsi un'idea di ciò che sto dicendo. Senza infatti volermi paragonare ad un colosso della letteratura mondiale come lui, c'è però un pezzo di Kundera che spiega bene lo stile del mio romanzo: "Se fossero di carta le montagne e l'acqua inchiostro, e le stelle scrivani, e se a scrivere fosse l'ampio universo intero, pure scrivere non potrebbe fino in fondo il testamento del mio amore " cantava Jaroslav senza sollevare il violino da sotto il mento, e io mi sentivo felice dentro quelle canzoni (dentro alla cabina di vetro di quelle canzoni) dove il dolore non è un gioco, il riso non è falso, l'amore non è ridicolo e l'odio non è timido, dove la gente ama col corpo e con l'anima (sì, Lucie, col corpo e con l'anima insieme!), dove quando è allegra balla e quando è disperata si getta nel Danubio, dove l'amore è ancora amore e il dolore ancora dolore e i valori non sono stati ancora devastati; e io mi sentivo a casa dentro quelle canzoni, mi sentivo uscito da loro, mi sembrava che il loro mondo fosse il mio marchio originario, il mio mondo che io avevo tradito ma che tanto più era il mio mondo (perchè la voce più supplichevole è quella del nostro mondo verso il quale ci siamo resi colpevoli); capivo anche, però, che quel mio mondo non era di questa terra ( ma che mondo è mai allora, se non è di questa terra?), che quello che stavamo cantando e suonando lì non era che un ricordo, un monumento, la sopravvivenza simbolica di qualcosa che non c'era più, e sentii il suolo che quel mio mondo mancarmi sotto i piedi, mi sentii sprofondare col clarinetto alle labbra, sprofondare giù nel profondo degli anni, nel profondo dei secoli, in una profondità sterminata (dove l'amore è amore ed il dolore dolore) e mi dicevo con stupore che il mio unico mondo era proprio sprofondare, quella caduta indagatrice e avida, e mi abbandonavo ad essa, provando una dolce vertigine…"

Certo, leggendolo lo si potrebbe definire ripetitivo, lento, pieno di ripetizioni. Si poteva scrivere la stessa cosa usando meno della metà delle frasi. Ma quanta poesia, armonia e musicalità traspare dalle sue parole!

Sono d'accordo, ma come hai detto tu poco fa: stiamo parlando di Kundera!

Comunque c'è un'altra componente, in questo discorso, che mi ha colpito. Il romanzo sembra privo di editing da parte di una persona esterna che sia intervenuta, magari con esperienza, prima di andare in stampa. E' così?

Ho fatto naturalmente leggere il romanzo ad alcune persone prima di proporlo alle case editrici ma non mi sono rivolto a un editor professionista. Credo che l'intervento di un editor possa essere utile se visto quale autorevole parere esterno, come un feedback per un romanzo ancora in costruzione. In questo senso il parere di un editor può essere prezioso. Se invece per editing si intende una persona che ti dice "taglia qui, allunga di là, parla più di questo, meno di quest’altro", beh, allora non mi interessa. Il mio romanzo e il mio modo di scrivere deve piacere per come è. Se non piace non ha senso che io lo cambi per far contenta una casa editrice o un autorevole critico. Sarebbe come se un pittore si sentisse dire da un critico "questo quadro va modificato qui e qui, qui aggiungi colore, qui schiariscilo, qui inserisci una figura di donna…". Il pittore risponderebbe "ascolto il tuo giudizio con interesse e ne terrò conto nel creare il mio prossimo quadro, ma alla fine non posso stravolgere la mia arte per piacere a te. Quindi se il quadro ti piace lo compri, sennò no". Così vale per il mio libro: accetto con piacere tutti i feedback, compresi quelli negativi come quello che mi hai dato tu. Ritengo di aver sempre da imparare da tutti e ovviamente questi feedback sono utili per permettermi di migliorare il mio modo di scrivere. Ma alla fine non mi interessa che qualcuno mi dica come scrivere. Se il mio libro al lettore piace mi fa molto piacere, in caso contrario non leggerà la seconda avventura di Penelope.

Come sei arrivato alla pubblicazione?

E' stato un lungo travaglio. Ho contattato oltre centoventi case editrici che avevano gialli nel loro catalogo. A seguito dei contatti ho spedito circa settanta manoscritti. Ho avuto varie proposte di pubblicazione e alla fine ho scelto la Seneca di Torino, un editore che ha creduto e investito su di me.

Sei soddisfatto?

Sì, sono soddisfatto dei quattro mesi intercorsi dal lancio del libro. Non ho ancora i dati relativi alle vendite ma ho un ottimo feedback dal profilo su Facebook dove ho circa 1.200 amici e dove il fan club di Penelope a oggi ha oltre 400 iscritti. Ho avuto oltre 30 articoli e recensioni in larga parte positive. Anche il feedback diretto dei lettori è positivo e mi dà slancio ed energia per andare avanti.

Una nota particolare, lo devo ammettere, la merita, invece, la copertina. Una grafica molto accattivante e davvero ben congeniata.

Mia moglie ha uno studio di cartoon animation e grafica e ha curato in toto l'immagine di Penelope che è nata dalla sua fantasia dopo aver letto il libro. Abbiamo lavorato insieme alla copertina e la Seneca edizioni ci ha dato carta bianca per la sua realizzazione, il che l'ho apprezzato molto.

Visto che tutta la vicenda ruota attorno a Penelope mi piacerebbe con te provare a conoscerla meglio. Di lei sappiamo molte cose che vengono dette e ripetute nel romanzo, ma invece ce ne sfuggono altre, che la renderebbero, forse, meno idealizzata e più umana. Di cosa ha paura, per esempio, Penelope?

Beh, nel romanzo ci sono alcuni punti in cui Penelope si mette un po' a nudo. Senza svelare nulla ai lettori in una scena al Tannish e poi nelle battute finali ci sono momenti intensi in cui emerge la parte più intima e delicata di Penelope. Credo che Penelope abbia fondamentalmente paura del tempo. Di svegliarsi una mattina e accorgersi che dopo aver rimandato tante volte, alla fine il tempo è scaduto. Tempo per cosa? Per tutte le cose importanti nella sua vita che non siano il lavoro. Si, l'Amore, ma anche tante altre cose. E Penelope forse per sconfiggere questa paura le va incontro, la abbraccia e se ne fa cullare. Con un abbraccio quasi mortale, fedele al suo motto secondo il quale per conoscere e per vincere devi entrare in contatto con ciò che non conosci e che ti fa più paura. E consapevole del fatto che, fortunatamente, ogni mattina alla fine suona la sveglia e ti riporta alla realtà di tutti i giorni.

Cosa canta sotto la doccia?

Le cose che ascolta nel suo Maggiolone: Beatles, Bowie, Dire Strats, Bruce Springsteen ma non disdegna musica più attuale come ad esempio Gwen Stefani e Britney Spears.

Quali sono il suo libro e il suo film preferito?

Penelope legge poco e non mi ha mai detto quale sia il suo libro preferito. Il suo film preferito è senza dubbio Casablanca ma al secondo posto viene Una poltrona per due.

E infine qual è il suo uomo ideale?

Il suo uomo ideale? Non lo sa nemmeno lei. Sicuramente è un uomo che la fa sognare, tutto il resto viene dopo.

Mentre la nostra gita giunge al termine e ci dirigiamo verso casa, affronterei la più classica delle chiusure: progetti?

Vorrei arrivare a pubblicare il secondo romanzo della serie, penso di buttarlo giù durante l'estate e di proporlo per la pubblicazione in autunno.

Che dire, grazie Eliott per aver accettato questa intervista, nonostante il romanzo mi abbia lasciato grossi dubbi e grazie per la gita fuori porta che hai regalato alla nostra rubrica.

Grazie a te Chiara e spero un domani di poterti annoverare tra i nuovi fan di Penelope, non si sa mai…