Queste merde di operai, sempre a chiedere qualcosa! La diceva spesso, suo papà, questa frase.

 

* * * * *

 

Carlo aveva un aspetto stralunato, e parecchio a guardarlo bene.  Mise giù un carico un po’ alla cazzo e la briscola chiamata alla fine la vinsero gli altri.

- Ma che volevi fare? Se rovini il gioco a me mica si vince, Carlo. – esclamò Fabio, due birre in corpo e poca convinzione, tanto stava già pensando alla partita in tivvù.

- L’idea era quella – rispose Carlo.

- Quale, rovinare il gioco al tuo compagno o vincere?

- Vincere.

- Bel modo.

- Già…- disse Carlo voltandosi a guardare Maria, la cameriera del bar, che veniva verso il loro tavolino.

Ecco perché è così fuori di zucca, pensò Fabio accendendosi una MS, quella gli fa un sorriso e lui…pam! Però si voltò anche lui a guardare Maria, che ora s’era girata e dava loro le spalle camminando in direzione della cassa. Aveva un culo che ondeggiava come due bambini che se la spassano. Difficile non stralunarsi, riflettè ancora. Il locale era davvero pieno, forse era per la presenza di Maria e infatti erano tutti uomini che bevevano, fumavano, pestavano sul flipper o giocavano a carte. Ma c’era anche la partita, che con la tivvù a colori era tutta un’altra cosa. Mica se la potevano permettere tutti, soprattutto Fabio, data la busta paga che le acciaierie gentilmente gli passavano ogni ventisette.

- Sai una cosa?

Carlo s’era fatto serio e non lumava più Maria. Aveva persino cambiato voce.

- Cosa Carlo? Che dovremmo prendere dei posti migliori perché da qua si vede male? Siamo arrivati tardi,  è tutto pieno e se ci alziamo adesso non facciamo che peggiorare la faccenda. Io non mi alzerei, lascia perdere, va bene così. Quel che si vede, si vede.

- Quel tizio…- Carlo si accese una Camel (chissà come se le poteva comprare, lui) – quello là in fondo, voltati piano.

- Eh? – fu facile farlo lentamente, perchè a Fabio faceva male il collo.

- Non mi piace per niente.

- Cos’ha che non va?

- Non lo so. Non l’ho mai visto qui.

- C’è la partita. Cazzo, a colori. La terza partita dei mondiali, e le prime due le abbiamo vinte alla grande. C’è un sacco di gente che entra qua per la prima volta in vita sua.

- Sì, lo so.

- E allora?

- Quella è gente che comunque vedi qua in giro, in fabbrica, a far la spesa o alla fermata del tram. Facce che hai in mente, insomma, anche se non sai chi sono. Quello no.

Fabio si girò ancora e osservò meglio.

- Può essere.

Il tipo aveva la barba sfatta e tutta roba di jeans addosso, era pieno di catenine e braccialettini. Proprio in quel momento Maria gli servì una birra, si fece pagare subito e si allontanò.  Lui si mise a bere e fece scattare l’accendino.

Si guarda troppo intorno, riflettè Fabio. Ne aveva visti altri così, che sembravano pirlare di qua e di là, al lavoro soprattutto, ma facevano le cose con uno scopo ben preciso. Se era uno di quelli, la faccenda non gli piaceva affatto. Bisognava isolarli, quegli infiltrati, ne andava dell’unità nei consigli di fabbrica, sennò...

Chiamò Maria, che rispose con un gran sorriso.

- Vengo subito!

Carlo mise via le carte e qualcuno accese la tivvù. Il collegamento via satellite con l’Argentina stava per iniziare, l’immagine traballò per qualche istante, ma poi quando videro l’erba dello stadio com’era verde fu tutto un oh! di meraviglia, come se non l’avesse mai vista nessuno prima. L’urlo del pubblico di laggiù arrivava nel bar e sembrava aver rimbalzato un sacco di volte, ammaccandosi un po’.

Maria arrivò vicino a loro due, con un sorrisetto. Né Fabio né Carlo le guardarono più le gambe, che ormai avevano altro in testa.

- Almeno voi due ditemi che l’erba quanto è verde l’avete già vista prima, da qualche parte.

- Maria, senti un po’. Che t’ha detto di preciso, quello?  - fece Carlo alzando il mento nella direzione del tizio.

Maria rispose e Fabio provò ancora a girarsi, ma il collo gli faceva troppo male.

* * *

Peccato per il vestito, pensò Renato. Era quasi nuovo, quasi quasi fatto su misura, e di un bel nero, anche se un po’ scolorito. Un bel vestito che ora era tutto rovinato, a causa del lavoro, per di più! Se lo fosse rovinato da solo, per i fatti suoi, poteva anche non pensarci più e amen, ma per il lavoro no, per il lavoro la cosa gli restava qua, perché nessuno lo avrebbe rimborsato e ci avrebbe rimesso lui.

- Non dovevi essere fuori, tu?

La voce di Claudia gli arrivò alle spalle, all’improvviso e lo costrinse a voltarsi. La serata era dolce, quasi calda, e Claudia era vestita di conseguenza, cioè molto poco. Salì sullo schienale del divano alle sue spalle e si sedette allargando le gambe nude intorno a lui. Profumava di fresco e la vista dei suoi piccoli piedi e delle caviglie gli provocarono una piccola erezione inaspettata. Impossibile non notarla, e Claudia riprese.

- Non è il momento: dovevi essere fuori, adesso. E la pistola?

- Esco dopo. Adesso c’è la partita.

- La partita?

- La partita. I mondiali.

- E che partita?

- Italia e Argentina.

- E tu guardi la partita? Ma da quando te ne importa qualcosa, Nato?

- No, io non guardo la partita. Lui, di là, ha chiesto di vedere la partita.

- Lui?

- Lui.

- Strano.

- Strano. Infatti non la vedrà e voglio proprio seguirmela tutta io, per capire perché gli interessava tanto.

- E quando te l’ha chiesto? Magari avrà avuto qualche motivo strano oppure è solo un tifoso occulto da stadio. Ma a che ci serve capirlo? Tu devi essere fuori e controllare la pistola.

- È giù nel maggiolino, sotto il sedile.

- E lo Sterling?

- Di là vicino alla porta dove sta lui.

- E perché la pistola è giù, mh? – Claudia serrò leggermente le cosce nude intorno alla  testa di Renato, gli frugò con le dita delle mani tra i capelli e con la pianta del piede destro cominciò ad accarezzargli, con delicatezza, il gonfiore che cresceva in mezzo ai suoi pantaloni. Renato faticò a trattenersi.

- Hai detto che non era il momento…

- Infatti non lo è. Volevo solo vedere se avevi buoni ricordi del viaggio in India…

- Parrebbe di sì, che ne dici?

- Non male…e poi volevo rammentarti che, dopo il dovere, c’è anche il piacere. Prima il dovere però!

Così dicendo si alzò di scatto dallo schienale del divano e andò ad aprire la porta.

- Vai, che io comincio a pensare al comunicato.

La pistola era rimasta nel maggiolino parcheggiato in strada, e anche se non era in vista, era meglio se Renato la portava su.  Claudia aveva ragione, come sempre. Si avviò giù per le scale. Benetti e Causio, intanto, scambiavano palla con un giovane Tardelli. Claudia cominciò a rivestirsi. Si mise alla macchina da scrivere e dopo qualche minuto, nell’appartamento squillò il telefono.

* * *

 

Nessun battaglione di "teste di cuoio", nessun super specialista tedesco, inglese o americano, nessuna spia o delatore dell'apparato di Lama e Berlinguer, sono riusciti minimamente ad arrestare la crescente offensiva delle forze comuniste combattenti.

E' questa in realtà la maggiore sconfitta delle forze imperialiste. Estendere l'attività di combattimento, concentrare l'attacco armato contro i centri vitali dello Stato imperialista, organizzare nel proletariato il Partito Comunista Combattente è la strada giusta per preparare la vittoria finale del proletariato, per annientare definitivamente il mostro imperialista e costruire una società comunista….

 

Più o meno l’aveva imparato a memoria, se l’era dovuto studiare come tutti gli altri volantini e continuava a ronzargli in testa, mentre stava cercando di capire, nell’ordine, perché l’avevano mandato lì da solo, perché quei due non la smettevano di fissarlo e se era nel posto giusto.  L’uomo vestito di jeans, seduto al tavolino del bar, provava paura, ansia ed eccitazione.  Da quella posizione vedeva bene il maggiolino parcheggiato in strada e anche se il colore non coincideva precisamente con quello dichiarato dall’informatore, sentiva di essere vicino. Avrebbe voluto controllare anche la cabina telefonica dall’altro lato della via, ma era fuori dalla sua visuale e soprattutto, soprattutto, non aveva idea di quale fosse l’appartamento. Mentre era indeciso se chiamare e chiedere rinforzi o alzarsi e fare un giro fuori, Scirea duettò con Bellugi, per poi lanciare a Cabrini, sulla sinistra. La posizione era ottima per un bel cross e molte mani e corpi, nel bar, si alzarono di scatto. In mezzo a quelle, l’agente speciale Pazzini credette di scorgere qualcuno che si avvicinava al maggiolino e ne apriva la portiera. Si catapultò fuori per vedere meglio e si mise al buio, accanto al muro, a osservare. Fabio e Carlo non lo perdevano di vista un istante, altro che partita, anche se Benetti, osti però, sembrava bello tonico.

Renato era tranquillo: si infilò sotto il sedile, prese la pistola e la mise con un movimento rapido nella tasca interna della giacca, poi si guardò intorno. Aveva fatto il movimento stando seminascosto, nessuno poteva averlo visto.  Pazzini non poteva vedere bene l’arma ma un rapidissimo riflesso metallico sotto la luce del lampione attirò la sua attenzione e pensò che il momento era arrivato. Corse dentro, nel retro del locale, per telefonare subito in centrale. “Ma perché cazzo non mandano ancora nessun rinforzo?” pensò componendo il numero sul disco, e questo gli fece completamente passare di mente che voleva dare un’occhiata alla cabina telefonica dall’altro lato, e che non l’aveva fatto.

“La macchina è bruciata, l’appartamento è bruciato”, si disse invece l’uomo dentro la cabina, mentre inseriva svelto i gettoni e, quando Claudia rispose, le disse esattamente quelle parole, aggiungendo solo:

- Venite via. Subito. Con la renault 4 al cortile interno dei Marescialli. Eseguite appena è nel bagagliaio, poi abbandonate la macchina là, e sparite. Al comunicato pensiamo noi.

Claudia fece scattare la forcella dell’apparecchio e lasciò la cornetta staccata. Quando vide Nato rientrare disse secca, mentre si infilava la sterling nella cintura dei jeans:

 - Siamo bruciati. Giù alla renault 4 nel garage, eseguire e poi via ai marescialli. Poi si abbandona.  Vallo a prendere, ora! Via, via, via!

“È finita, quindi”, pensò Renato, mentre tirava fuori di peso, dall’intercapedine, quell’uomo minuto e silenzioso, con i capelli bianchi ed uno sguardo stupito.

Gli mise una coperta nera sopra.

- Cammini, Presidente, dobbiamo andare, veloce, stia tranquillo. Cammini, rapido.

Claudia riaprì con calma la porta dell’appartamento, mise la testa fuori e guardò a destra e a sinistra. Nessuno. Sentiva solo il suo respiro ed era troppo forte. Tutto troppo in fretta.

- Niente ascensore. Giù per scale fino al garage.

Nato pensò al vestito, sperando di non macchiarlo.

* * *

Il rinvio di Zoff arrivò a Gentile, ma Antognoni chiese palla immediatamente.

- È andato sul retro, Fabio.

- Lascialo uscire ancora, poi andiamo a verificare. Capace che sta lasciando lì uno dei loro merdosi comunicati.

- Io lo prenderei a botte subito.

- Non servirebbe a niente. A parte che è rischioso, perché avrà una pistola e noi no. Ora vediamo…se esce di corsa lo seguiamo. Se torna a sedere tu stai qua a curarlo e io vado nel retro a vedere.

Pazzini si precipitò ancora fuori. Un momento prima aveva chiamato la centrale e chiesto rinforzi.

- Negativo, agente. Il grosso delle forze sono concentrate in ricerche sul Lago di Vendrate. Segua i sospettati, se ritiene che sia utile e non prenda rischi. Ma abbiamo la certezza che il Presidente si trovi da un’altra parte, e non lì dove svolge il suo servizio di pattuglia.

Se mi hanno visto, si sentono bruciati, e andranno via dal garage con un’altra macchina, subito. Se non mi hanno visto non faranno niente. Vado nel garage, ci sto un quarto d’ora, e se non succede niente torno qua, mi godo la partita e vaffanculo.

Uscì, attraversò e si incamminò scendendo lungo la rampa che portava ai garage sotterranei. Carlo e Fabio si scambiarono uno sguardo e lo seguirono a distanza. Benetti sradicò la palla dai piedi di Ardiles. Forse era fallo, pensarono al bar.

Pazzini era arrivato in fondo alla rampa dei garage e stava al buio ad aspettare.  Carlo e Fabio erano su, in cima e ascoltavano. Dentro, Claudia precedeva Renato che spingeva frettolosamente il presidente giù per le scale. Claudia sentiva ancora il suo respiro farsi affannoso, ed aveva paura di rovinare tutto, di non farcela. Nato avrebbe voluto gridare per far muovere il presidente, ma non poteva, e allora sfogava la frustrazione spingendolo in continuazione e sorreggendolo perché non cadesse. Arrivarono in fondo alle scale,  lungo il corridoio delle cantine all’interrato, davanti alla porta che dava ai garage. La luce era livida e la faccia di Claudia gialla.

- La renault dov’è? – chiese Renato. Claudia non se lo ricordava, e sudava a fiotti.

- Claudia! La renault, dov’è? Destra o sinistra?

Claudia chiuse gli occhi. Il presidente sotto la coperta si lamentava.

- Destra. – disse debolmente, e aveva voglia di vomitare. Renato spalancò la porta e si buttò nel buio a destra, tirandosi dietro il presidente. Pazzini vide la striscia di luce e le figure entrare e farsi inghiottire nel buio.  Erano un uomo, quello del maggiolino, una donna e qualcuno avvolto in un panno scuro. Tirò fuori la pistola d’ordinanza e sentì di avere fifa. Era uno sbirro, non un eroe, e quella cosa non avrebbe dovuto farla da solo.

Rossi, sulla sinistra, passò indietro ad Antognoni, per poi spostarsi al centro. Da Antognoni a Bettega, che cercò il triangolo con Rossi. Il triangolo si chiuse e Bettega in corsa scaricò un destro alle spalle di Fillol. Italia uno Argentina zero. Fu un attimo dopo che Pazzini aveva deciso di muoversi e di provarci. L’urlo che uscì dalla gola di decine di milioni di italiani avrebbe potuto coprire il rumore di un terremoto. Carlo e Fabio erano decisi a scendere per capire cosa succedeva nel garage, ma quando sentirono il grido di gioia,  ci pensarono su un attimo e poi tornarono di corsa verso il bar, dove le lodi di Bettega si stavano già sprecando.

Due secondi dopo il gol, l’uomo della cabina telefonica sparò nella schiena a Pazzini, tre volte. Si era piazzato lì, in un angolo senza luce del parcheggio sotterraneo mentre l’agente era rientrato nel bar, e lo stava aspettando. Pazzini morì sul colpo, mentre tutti i connazionali esultavano gridando di gioia. Nessuno sentì nulla. Alcuni istanti dopo Claudia aprì il bagagliaio della renault 4 e spinse dentro il presidente.  Renato, appena l’uomo fu tutto dentro, lo coprì con la coperta e gli scaricò addosso cinque colpi di pistola, mentre tutto il Paese si scambiava congratulazioni e benediceva Bearzot. Poi, mentre Claudia andava al posto di guida,  chiuse il portello del bagagliaio, salì, lei mise in moto e la renault si diresse verso via dei marescialli. In una città deserta e distratta, con le forze dell’ordine impegnate in ricerche sul Lago di Vendrate, ci misero poco. Arrivati, abbandonarono la renault 4 con il corpo del presidente in un cortile interno. Durante il tragitto Nato constatò che il vestito s’era strappato. Merda.

Nel frattempo, l’uomo che aveva chiamato Claudia dalla cabina telefonica e ammazzato Pazzini, prese i ciclostili dei comunicati che aveva in tasca, e li mise in un cestino dei rifiuti, davanti al bar.

Dentro al locale, Fabio tornò dal retro.

- Niente di sospetto, niente comunicati nel cesso.

- Quel tizio è sparito. Forse era davvero venuto qua a guardare la partita.

- Può essere.

Carlo vide Maria al bancone e le spiccò un sorriso. Lei rispose, e lui si stralunò di nuovo. In fondo, stavano vincendo la partita, e andava tutto bene. L’indomani sarebbe stata una tranquilla domenica. Quasi quasi chiedo a Maria se usciamo insieme, pensò.

 

* * *

Pulire era forse la cosa che odiava di più. Sorridere ai clienti, prendere le ordinazioni e servire ai tavoli, passi. Sentire i commenti, specie quelli dei più giovani, sul suo corpo, le sue gambe, e farlo sempre sorridendo, era già più difficile, ma poteva farlo. In fondo l’avevano mandata lì con uno scopo ben preciso, doveva eseguire e non lamentarsi. Anche se non si sarebbe mai lamentata, perché era orgogliosa di quel che faceva: non conosceva tutti i dettagli né sapeva esattamente cosa stesse succedendo da quelle parti e perché, anche se poteva intuirlo. Ma non se ne preoccupava più di tanto, pensava a fare bene i suoi compiti e quando arrivava l’ora di chiusura, e il momento di pulire, di rovesciare tutte le sedie sui tavoli, spazzare, dare lo straccio, lustrare il bancone e anche lavare in qualche modo la turca, ecco allora pensava che prima sarebbe finita e meglio era. Perché va bene tutto, ma sapeva di poter fare di più e di meglio. Avrebbe potuto essere molto più utile e sperava che se ne sarebbero resi conto prima o poi. Gli altri li aveva conosciuti l’estate prima, nell’umidità afosa di Bombay, durante uno di quei viaggi fatti più che altro per noia, e per cercar di capire se stessa.

Sembravano un gruppo di turisti come tanti, se non fosse che a Bombay di turisti italiani ce n’erano veramente pochi e quelli che si incontravano quasi mai erano turisti e basta. Come loro, che non li vedeva mai eccedere in qualche fumata di troppo, mai sballati, sempre lucidi e sempre a discutere. L’avevano avvicinata chiedendole se fosse di Torino, poi avevano buttato lì una serie di affermazioni caotiche e confuse sulla società capitalista, sulla sua morte imminente, su tutti i servi che in Italia si vendevano ai poteri occulti del fascismo finanziario. Era necessario agire, era indispensabile farlo subito, e in modo militare. E come ogni esercito che si rispetti, servivano anche comprimari. Lei sarebbe stata disponibile? Maria viveva una fase altrettanto ingarbugliata, nei suoi pensieri e nella sua visione del mondo. Non sapeva bene chi fosse e dove volesse andare, e si sarebbe aggrappata alla prima certezza che avesse avuto a portata di mano. Così aveva detto sì e si era ritrovata dalla sera alla mattina, una di quelle fredde e grigie che la città  regala d’inverno, davanti ad una filiale dell’Ambrosiano, a far da palo in una cabina telefonica. La rapina era andata bene, ce n’erano state altre e aveva anche tenuto in mano una pistola, e sparato. Dopo qualche tempo l’avevano mandata lì, in quel bar della capitale economica d’Italia, tutto pagato, viaggio, vitto e alloggio, con un solo ordine: far la cameriera, farlo bene, guardarsi intorno e aspettare il segnale.

Quella sera Maria aveva sentito che qualcosa si stava muovendo. Fece le pulizie veloce con un occhio sempre verso il marciapiede fuori. Quando notò un’ombra vicino al cestino dei rifiuti capì che il suo momento era arrivato. Chiuse il bar, sapendo che non l’avrebbe rivisto mai più e vide il fascio dei ciclostili. Sopra c’era un foglietto.

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Maria andò sul retro del bar e bruciò il foglietto, poi si diresse alla cabina. Non c’era un granchè da pulire lì, bastava strofinare un po’ la cornetta per togliere le impronte.

Una volta finito, attraversò la strada, mentre un gatto saltellava in mezzo ai bidoni dei rifiuti. C’era un gran silenzio, anche se da lontano si sentivano rumori di macchine e di clacson. Aprì il maggiolino, lo avviò e scese giù nel garage, percorrendo la rampa con molta cautela, ma non vide nulla di strano. Quando fermò la macchina e scese, all’interno della rimessa, vide subito il corpo dell’uomo vestito di jeans che aveva servito al tavolo poche ore prima.  Non provò disgusto né pietà, solo orgoglio e soddisfazione per avere finalmente avuto un compito così importante dai compagni. Se lo avesse svolto alla perfezione, finalmente si sarebbero accorti di lei!

A fatica, e sporcandosi di sangue, caricò l’uomo nel baule della Volkswagen, la parcheggiò, poi salì nell’appartamento e si dedicò mezz’ora alle “pulizie”. Dopo tornò giù  e si avviò in fretta verso il Lago di Vendrate.  Doveva finire per le due: sapeva cosa significava. La polizia sarebbe stata avvertita dei comunicati nel cestino dei rifiuti davanti al bar e, mentre le volanti si precipitavano a sirene spianate, lei avrebbe già dovuto essere sulla strada per la stazione.

Arrivata al lago, intorno all’una, si guardò intorno: i segni delle ricerche fatte dai carabinieri negli ultimi giorni erano evidenti, ma ormai se n’erano andati tutti. Una mossa perfetta, pensò, nessuno sarebbe venuto alla ricerca di un cadavere per un bel pezzo. Scaricò il corpo di Pazzini in un punto di acqua alta che le sembrava adatto, poi voltò il maggiolino in direzione della città. Non sapeva bene come avrebbe passato quelle ore che la separavano dal suo treno e dal suo contatto ma era intimamente soddisfatta. Era ora, pensò, basta con i sorrisi a tutte quelle merde di operai. Da domani, si fa sul serio.