Se si volesse ragionare per categorie rigide, per generi, sarebbe saggio evitare di prendere in considerazione le opere di Michael Mann.

Trasversali per definizione, così tecniche a volte da spostarsi nel campo della sperimentazione visiva: la conclusione più sensata in materia di generi è attribuire al regista uno sguardo noir sul mondo. Disagio, inquietudine, violenza (latente o espressa) sono dominanti di tutti i suoi film. Come in Manhunter, Insider, Heat, anche in Collateral abbiamo un film sostanzialmente ed esclusivamente maschile: una coppia di protagonisti radicalmente e antropologicamente differenti, messi a confronto in modo spietato e duro sul valore del rapporto, dell’amicizia e della lealtà.

Le premesse (che avrebbero certo suscitato l’interesse di un Hitchcock) sono intriganti: Max, tassista\uomo comune (meglio sarebbe dire mediocre) e Victor, assassino prezzolato, uomo eccezionale sotto tutti i punti di vista, si incontrano per puro caso e legano le loro vicende fino all’epilogo epico della vicenda. Servito da una fotografia e da un senso dell’inquadratura di altissimo livello, Mann non riesce però a “quadrare il cerchio”. È l’occhio del regista stesso (o la penna del suo sceneggiatore, poco importa) a tradire l’amore e l’ammirazione sconfinata per il personaggio di Victor, enorme, presentissimo, servito da un Tom Cruise perfetto. Per questo il primo tempo, dove l’assassino è trionfante nella sua perfezione (ed è uno strano cortocircuito con il gaijin di L'ultimo Samurai e il Forrest Withaeker di Ghost Dog) e il tassista patetico nella sua mediocrità, è assolutamente convincente, preciso e formalmente elegantissimo, mentre la seconda parte è semplicemente lo svolgimento un po’ scolastico del meccanismo di inversione. Il personaggio di Max, nel suo mutuare sicurezza e determinazione dal killer, perde in parte di coerenza e di credibilità, mentre non risulta convincente il processo di disintegrazione morale ed emotiva dell’assassino. La forzatura verso una dialettica manichea e troppo volutamente epica finisce così per rendere freddo un film che per altri versi risulta notevolmente ispirato e suggestivo: resta, a margine, l’estasi visiva di una metropoli notturna palpitante, onirica e nerissima. Forse l’elemento più vero e più sentito di tutto il film. (Stefano Ascari)

Collateral non ha titoli di testa. Inizia così, catapultandoci in una caotica Los Angeles, fredda, impersonale e dominata da luci al neon; “Buon soggiorno a L.A.”, augura profeticamente un passante qualsiasi a Vincent/Tom Cruise, ma sembra piuttosto un avvertimento del regista Michael Mann: attenzione, state per entrare nel mio mondo adesso, e si seguono le mie regole.

Con un curriculum più che lusinghiero (ricordiamo in ordine sparso la serie tv “Miami Vice” e opere di rara bellezza come “Insider”, “Manhunter”, “L’ultimo Dei Mohicani” o “Heat – La Sfida”), il filmmaker statunitense giunge nell’anno 2004 con questo thriller urbano dalle atmosfere rarefatte e oscure, volto a mostrarci una Città Degli Angeli diversa dagli stereotipi comuni: Vincent è un killer prezzolato, giunto nella metropoli californiana con il compito di eliminare cinque persone per conto dei suoi mandanti; lo spietato assassino monta così sul taxi di Max, ragazzo di colore pieno di sogni e belle speranze che ha appena incontrato quella che è probabilmente la donna della sua vita, ignaro delle intenzioni del suo nuovo cliente. Appena queste si fanno evidenti, tra i due nasce una lotta soprattutto dialettica e a sfondo morale, fino a quando Max scopre con orrore che l’ultima vittima nella lista di Vincent è la sua musa nominata poco fa… da una trama e una sceneggiatura tutto sommato contenute anche se piuttosto intriganti (l’unità di luogo predominante resta per forza di cose il taxi, e zone limitrofe, quasi fosse un vettore tra la vita e la morte…ma non è forse questa la funzione di un mezzo di trasporto, passare da un luogo all’altro e viceversa?), Mann non guarda in faccia nessuno e dona alla pellicola il suo tocco magico fatto di movimenti di macchina perfettamente coordinati con l’azione sullo schermo, di tempi sospesi in apnea e di personaggi profondi, scavati, soprattutto umani. E i due protagonisti, Max e Vincent, seguono un percorso diametralmente opposto; il primo insicuro, sognatore ‘passivo’ e rassegnato, il secondo distaccato, freddo, perfettamente consono di come funziona la vita e implacabile nelle sue decisioni. Lentamente, avviene una sorta di transfert: Max comincia a capire, realizza gli anni sprecati a sognare il suo atollo privato su una cartolina appesa al parasole del taxi, realizza l’indecisione di chiamare o no quella bella cliente, si rende conto della necessità di agire, e sarà proprio la volontà di fermare Vincent che lo metterà in moto; quest’ultimo, dal canto suo, sprofonda sempre più lentamente nell’incertezza, inizia a commettere degli errori, capisce che le ciniche regole del mondo che declama valgono anche per lui: non a caso, a un certo punto il taxi incontra un coyote che sfida con i suoi occhi giallastri lo sguardo di Vincent; sono entrambi predatori, ed entrambi capiranno che la loro vita può venire strappata da un momento all’altro, rassegnandosi facendo spazio al resto, diventando ‘background’ di un mondo che stanno per abbandonare. Ma Vincent, capello brizzolato e completo grigio, rappresenta anche la perpetua facciata senza scrupoli degli uomini: Vincent è il metallo, solido, irremovibile, presente nel passato come nel futuro, scevro di travestimenti, una sorta di specchio che rimuove maschere e ipocrisia della vita di tutti i giorni e che fa emergere la vera natura umana, l’egoismo, il puro istinto di sopravvivenza; e “Collateral” è sotto molti punti di vista una grande lezione di vita, di cinema, di recitazione (ci sono pure Mark Ruffalo e Javier Bardem); qualcosa di cui si sentiva il bisogno disperatamente, qualcosa per cui valga davvero la pena soffermarsi a riflettere, e probabilmente uno dei migliori prodotti cinematografici a tutto tondo. Il thriller è solo la punta dell’iceberg, sta a voi immergervi per restare congelati dal capolavoro di Mann. E se salirete anche voi su quell’ultima metropolitana che chiude il film, non dovete preoccuparvi: nessuno ci farà caso. (Daniele Amato)