L'FBI richiede l'aiuto delle autorità di polizia di Miami per smascherare un traffico di droga ed armi diretto dal narcotrafficante Arcángel de Jesús Montoya insieme ad Isabella, affascinante amministratrice di origine cubano/cinese. Le indagini vengono affidate a due investigatori, Ricardo "Rico" Tubbs e James "Sonny" Crockett. Agendo sotto copertura i due agenti si mettono in azione spacciandosi come piloti di offshores e contrabbandieri, riuscendo così ad infiltrarsi nella banda di narcotrafficanti.

Mentre le indagini proseguono, l’inizio di una relazione tra Sonny e Isabella mette a rischio il proseguo dell’operazione…

"Michael Mann è un regista transhollywoodiano. Fa cinema dentro il corpo di Hollywood pur discostandosene, trascendendolo […] Quella di Mann è un’intenzione che parte da un’imposizione – gli studios e le loro regole – e finisce fuori della stessa. Ma non si tratta della megalomania pazza del regista in lotta col sistema, quanto, semplicemente, della forza di lavorare in case e nel contempo al di fuori delle mura domestiche. Mann lavora coi soldi di Hollywood e con la mente fuori da Hollywood";. (Pier Maria Bocchi, Michael Mann, Il Castoro Cinema, 2002, pp. 18-19)

Cancellate The Black Dahlia e lasciate tutto lo spazio possibile al ritorno del grande Michael Mann con Miami Vice, che pur derivando dalla famosa serie TV anni ’80 risulta a conti fatti tutt’altra cosa. Tanto era patinato e griffato il Miami Vice televisivo (del quale Mann diresse alcuni episodi) tanto è sporco e volutamente privo di orpelli questo (e seppure qualche griffe qua e là fa capolino, non c’è tempo per farci caso…).

Inizio tambureggiante in discoteca ma sul più bello l’azione non decolla. Nessun demerito, anzi, piuttosto la dimostrazione matematica che Mann è perfettamente consapevole di cosa narrare e di come farlo, così che piazzate tutte le pedine al posto giusto e giunto ad un passo dall’acme, può anche decidere tranquillamente di passare ad altro.

È che Miami Vice per Mann doveva essere qualcosa di differente: una rilettura dei danni collaterali su cosa significa essere un agente undercover quando a dettar legge non è solo l’etica o il suo contrario, l’ebbrezza del trasgredire la legge stessa, seppure a fin di bene (fermo restando che To Live and Die in L.A., dove si rubano soldi veri per acquistare soldi falsi per smascherare un falsario vero, rimane un capolavoro…), ma l’amore, sì avete capito bene, l’amore.

Intendiamoci però: l’amore per Mann non è quello insopportabile degli amanti che si contorcono sul letto con l’immancabile dettaglio della mano di lei che al culmine del piacere stringe un lembo del lenzuolo. Per Mann l’amore è un’indagine del mondo (dell’anima…) altrui compiuta con la stessa carica energetica che contraddistingue l’altra indagine, quella del poliziotto alle prese col suo lavoro.

Tenere assieme le coordinate del noir metropolitano con quelle del più basico dei melodrammi (l’amore impedito, ostacolato…), non solo è tipica di Mann (vedi Heat), ma è anche uno degli elementi che contraddistinguono i grandi registi.

Nessuno degli elementi citati prevarica sull’altro, altrimenti Miami Vice non sarebbe quello che è: un bolide che viaggia a velocità altissima dall’inizio (per quanto imploso…) alla fine. Oltre a tenere insieme, Mann sa girare alla larghissima da tutti gli inevitabili interni di commissariati o centrali operative. Preferisce di gran lunga tallonare da presso (nel senso letterale e visivo del termine con la cinepresa a cinque centimetri dalle facce…), non solo la coppia Sonny/Tubbs (Farrell/Foxx), ma anche i loro capi, diretti e indiretti, che una volta tanto non fanno i cacadubbi ma stanno pure loro in mezzo alla strada, magari sopra ad un tetto pronti a scrutare nel buio con un visore a infrarossi per scoprire i cecchini dei narcotrafficanti così da coprire i propri agenti.

Poi Mann infila nella narrazione, come già accadeva in Collateral, la notte e il cielo, o meglio ancora il cielo anche di notte, che assiste alle vicende umane facendo di tanto in tanto sentire la propria voce sotto forma di tuoni e di lampi, senza che a nessuno di coloro che vi si muovono sotto venga in mente di alzare la testa per capire che tempo farà (per abitudine o per rispetto? Chissà…).

Questi sono i materiali che Mann consegna allo spettatore, e che messi insieme formano un corpo unico supercompatto che gioca le sue carte su più tavoli: terra e cielo con l’oceano in mezzo, un corpo che corre sulle autostrade, che viaggia sugli aeroplani, che naviga su navi cargo e offshore, che carica e scarica droga a quintali, che prende la mira e che spara, che prende la mira e non spara, che ruba e che assicura alla giustizia, che telefona e che fa l’amore, che parla e che riflette, un corpo che come unica bussola ha una filosofia di vita quanto mai concreta e che suona così: <<Le probabilità sono come la gravità, non puoi negoziare con la gravità…>> (dice Sonny ad Isabelle…), un corpo che volente o nolente si muove nell’ombra, e che sa benissimo che nell’ombra passerà gran parte della vita che gli resta da vivere, un corpo che sa altrettanto bene che un mondo siffatto ha comunque bisogno di un poco di luce, dove quel poco di luce è un’innocente che alla fine si risveglia.

Perché questo non diventi il solito happy end che lascia l’amaro in bocca resta un mistero, ma è un mistero benvenuto, perché è un’altra di quelle circostanze che fa grande Miami Vice e il cinema di Michael Mann.