Capovalle, 1937

“Ha già ucciso” disse la vecchia con un filo di voce. “E ucciderà ancora.”

Gli occhi socchiusi spiccavano sul volto rugoso come due lame azzurre. Capelli lunghi e bianchi  raccolti da uno chignon in cima al capo. Sedeva immobile, nell’aria fumosa della taverna, vestita di nero, con le dita nodose incrociate sul pomello del lungo bastone di legno di faggio.

Aveva 103 anni ed era la donna più vecchia del paese. Durante la sua lunga vita aveva visto il mondo cambiare, imperi sorgere e cadere in rovina, uomini nascere e morire.

In passato, per lungo tempo aveva predetto la sorte ai molti che si rivolgevano a lei i cerca di consigli quando la loro buona stella sembrava averli abbandonati.

Ma anche per la signora Ildegarda il tempo del declino era ormai arrivato e ormai nessuno non le dava più retta. Le sue parole erano da tempo solo frutto dei vaneggiamenti di quella veneranda età.  

“Stai attenta quando fuori si fa scuro, ragazzina…”

 

Quelle parole le aleggiavano ancora nella mente. Letizia aprì la porta della taverna e rabbrividì a contatto dell’aria gelida. Il cielo era freddo e stellato, e si stagliava oltre l’orizzonte notturno delle montagne che sembravano messe lì a posta per cingere quel paese dal resto del mondo: Capovalle, un piccolo paese incuneato in un ansa della Valvestino, a pochi chilometri da Gargnano.     

Letizia contemplò le vecchie case dal tetto sbilenco, con il camino che fumava, la bottega del panificio quella del barbiere e, come faceva spesso, quella casa abbandonata e vuota che si stagliava sulla collina, alta e severa, aggredita dalle venature di rampicanti che spuntavano dall’erba, come bambini pestiferi che non vogliono andare a letto. 

Tra le mani stringeva i manici di due secchi di latta vuoti e traballanti. A quell’ora, l’unico lampione acceso del paese, rischiarava  il busto del Duce nel mezzo della piazza circolare. Quella medusa di luce fluttuante era l’unico riferimento con cui orientarsi lungo la strada che portava al pozzo. Quella vista, come altre volte, la fece sentire meglio, come se quel vuoto che aveva sempre sentito nel cuore, per un attimo venisse colmato. Era come se, alla presenza di quella figura, tutto acquistasse un ordine più preciso e stabile, dove lei si sentiva più sicura e meno sola. Si chiese per un attimo come doveva essere il mondo senza Duce. Guardò la luna confusa dalle nubi, i ciuffi d’erba che crescevano ai lati della strada, ascoltò un cane abbaiare in lontananza, ma non riuscì a immaginare un mondo senza Duce.

Quell’immagine scivolò dietro le sue spalle, inghiottita dal buio. Voltandosi, intravedeva a malapena i profili delle ultime due del paese.

Poco dopo sorsero i profili dei campi d’erba scuri che si perdevano in lontananza. Letizia non amava percorrere quel sentiero da sola a quell’ora, soprattutto quando i suoi occhi si abituavano al buio e quei campi si popolavano di ombre nere che ricordavano i lunghi mantelli neri delle suore. Quelle stesse suore che l’avevano cresciuta fino a nove anni, in un convento a Gargnano, dopo averla raccolta in una ruota per gli infanti prima che Mario e Rita Zinetti, bisognosi di un paio di braccia giovani per l’osteria del paese, decidessero di adottarla.

Ma Mario e Rita avevano scoperto ben presto che con le suore non si fanno buoni affari. Quel paio di giovani braccia  non erano così forti e resistenti come avevano immaginato.

 “Sono cose che accadono spesso nella valli, dove il sangue non si mischia a dovere” così aveva detto quel vecchio medico con la barba bianca che veniva in convento a visitarla. “Chi si ammala di questo morbo ha sempre freddo.”

Per via di quella gracile costituzione, e di un piccolo neo appena sopra il labbro sinistro, i suoi genitori adottivi l’avevano soprannominata: la francese.

E a tredici anni il buio e il freddo fanno sempre paura, soprattutto quando i campi e gli orti la notte si popolano di vecchie suore dal volto grinzoso e le dita ricurve come artigli.   

Letizia intravide la sagoma del pozzo. Affrettò il passo. Una brezza tesa si levò e fece stormire l’erba nei campi.

Udì un rumore di rami spezzati venire dal lato destro della strada.

Si fermò. Il cuore accelerò il battito.

“C’è nessuno?”

Stai attenta quando fuori si fa scuro, ragazzina…

Nessuna risposta. Solo silenzio e vento.

Letizia rimase immobile ancora qualche secondo, poi riprese a camminare.

Sperò si trattasse di una delle volpi che spesso in quella stagione scendevano dai boschi per attraversare il paese.

Poi qualcosa le afferrò il braccio e strinse. I secchi le caddero dalle mani rintronando. Letizia cacciò un grido. Dal buio emerse un volto illuminato dalla luce rossastra.

“Settete…”

Letizia riconobbe il viso di Giovanni, un suo coetaneo, figlio del fabbro del paese. Per un attimo non seppe se urlare ancora o abbracciarlo. Poi prese un secchio di latta e glielo scagliò contro. Il ragazzo attutì il colpo parandolo con il braccio, poi scoppiò a  ridere.

“Maledetto imbecille, vuoi farmi morire di paura…”

“Essù, è solo uno scherzetto…” disse Giovanni continuando a ridere.

“Ma che accidenti ci fai qui al buio?”

Giovanni diede un tiro alla sigaretta facendo sfrigolare la brace con aria compiaciuta. “A te che sembra?”

“Fumi di nascosto da tuo padre. Bravo, vorrà dire che glielo dirò, così saremo pari col tuo stupido scherzo.”

Il ragazzo ridacchiò ancora. “Tanto so che non lo farai…”

“Questo lo dici tu. Prendi piuttosto i secchi e aiutami a portare l’acqua, idiota che non sei altro…”

Giovanni acconsentì e a breve raggiunsero il pozzo. Il ragazzo agganciò il manico all’uncino a cui era annodata la corda, poi roteò la manovella e calò il secchio.

“Letizia, hai mai guardato il paese da qui?”.

“Sì, perché?”

“Prova a farlo ora.”

Letizia si voltò e osservò il profilo delle case e dei camini sotto la volta stellata, la luce lontana del lampione della piazza.  Poi vide un piccolo lumicino sconosciuto, che brillava lontano distante da tutto il resto.

“Quella luce?”

“Sì…”

“Da dove viene?”

Giovanni sganciò il secchio pieno d’acqua e l’appoggiò sull’erba. “Dalla casa abbandonata sulla collina.”

“Chi c’è dentro?”

“Non lo so.”

Letizia guardò la luce e rabbrividì. “Andiamocene, comincio ad avere freddo.”

Poco dopo i due  s’incamminarono. Giovanni l’accompagnò reggendo i due secchi pieni d’acqua fin sotto il rassicurante busto illuminato al centro della piazza.

“Ora puoi darmeli, grazie” disse lei.

Il ragazzo glieli porse con un sorriso. “Di niente…”

“Buonanotte.”

Il ragazzo si schiarì la voce. “Letizia…”

“Che c’è?”

“Me lo dai un bacetto?”

Letizia scoppiò a ridere. “Vai a casa, scemo.”

 

“La vita del viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani è appesa a un filo dopo l’attentato dinamitardo di questa mattina ad Addis Abeba…”

La voce gracchiante usciva da un altoparlante della radio a valvole. Come ogni domenica, la sala  era gremita dagli operai che durante la settimana estraevano carbone dalla montagna. Alcuni giocavano a carte, altri restavano seduti con lo sguardo perso nel bicchiere, mentre le mogli cianciavano dei figli impossibili che avevano.

Letizia stava asciugando i bicchieri quando sentì tutto quel vociare spegnersi improvvisamente, come se qualcuno avesse improvvisamente girato il pomello della radio.

Si voltò. E fu allora che lo vide.

Un uomo magro, ma imponente. Capelli neri, lunghi come quelli di una donna, raccolti in una retina nera sopra il capo. Camminava lentamente, con un incedere stanco, vagamente nobile. Un forestiero, su quello non c’era nessun dubbio. Degli uomini che giocavano a morra si bloccarono. Lui non se ne curò, come se fosse avvezzo agli sguardi altrui.

“Un Vermouth” disse con voce roca.

Letizia vide suo padre abbassare lo sguardo e annuire, poi prendere la bottiglia e versare il liquore nel bicchiere.  Le sue mani tremavano leggermente e i movimenti erano più impacciati del solito, come se non appartenessero più a quell’uomo dalla voce grossa che minacciava di far fischiare la cinghia se non gli si obbediva.

Il volto del forestiero era abbronzato, dagli zigomi pronunciati, quasi come quello di uno zingaro.  Le sopracciglia erano ampie e gli angoli della bocca erano disegnati verso il basso, come in una smorfia di leggero disprezzo che si nascondeva appena dietro la barba di qualche giorno.

Teneva gli occhi fissi sul bicchiere e Letizia non riusciva a indovinarne il colore. L’uomo finì in un sorso il liquore, si frugò nella tasca della giacca di fustagno stinto da cacciatore, tirò fuori qualche moneta e la depose sul bancone.

Solo in quel momento il suo sguardo incontrò quello di Letizia. E lei indovinò il colore dei suoi occhi: un verde cupo, lo stesso colore che hanno gli specchi d’acqua montani, torbidi di pioggia.

Sentì una paura profonda, immotivata, come se stesse per morire.

L’uomo si voltò, e si avviò verso la porta. Letizia prese il bicchiere ancora rossastro di liquore.

E sentì che era ancora caldo delle sue mani.

 

Nei giorni lo straniero non venne più alla taverna, forse per via delle neve che era caduta copiosa nascondendo il paese sotto una coltre bianca. Nonostante questo, quel paese continuava a domandarsi se quell’uomo dagli occhi verdi fosse Augusto Berti, quel figlio che anni prima aveva ucciso il padre in quella casa sulla collina.

 

Mario Zinetti sputò sul pavimento e guardò Letizia. “Vai al pozzo a prendere l’acqua.”

Il  solo pensiero di abbandonare il caldo di quella taverna e affrontare quella coltre gelata la faceva rabbrividire.

“Fa troppo freddo…” rispose lei.

La bocca di suo padre si stirò in una smorfia. “Ah, siamo alle solite. La piccola francese ha paura di lavorare.  “Esci subito! ” urlò lui. “E’ il tuo compito, stupida ragazzina!”

Letizia avvertì la violenza di quelle parole irradiarsi dentro di lei. Una vibrazione che la attraversava  minando una dopo l’altra tutte le sue certezze. Come già le altre volte che le era accaduto.

Sentì inspiegabilmente un fuoco salirle da dentro, e tutta la rabbia della sua adolescenza erompere tutta in una volta per diventare odio. Odio verso quell’uomo che aveva scelto di farle da padre. E odio verso se stessa che nel contempo l’aveva deluso.

“Perché non ci vai tu, vecchio schifoso.”

Si portò la mano alla bocca troppo tardi. Quelle parole le erano uscite dalle labbra così velocemente, come se le avesse pronunciate qualcun altro.

L’uomo allungò una mano, afferrò Letizia per i capelli e le avvicinò la bocca bavosa all’orecchio. “Ora ti insegno io ad avere rispetto per tuo padre, piccola ingrata.”

Vide suo padre sfilarsi la cintura dai calzoni e tirarla doppia con uno schiocco sordo. Chiuse gli occhi. Sentì primo colpo raggiungerla sotto forma di uno schianto bruciante sulla spalla destra. Appena il tempo per la seconda cinghiata, che arrivò diretta sul fianco, levandole il respiro.

Letizia digrignò i denti. Poi aprì gli occhi. Ma riuscì a non versare neppure una lacrima.

L’uomo la fissò. Letizia fece altrettanto, senza abbassare lo sguardo. Si voltò solamente, il tempo che serviva per uscire dal tinello, attraversare la sala da pranzo, raccogliere i secchi di latta e affacciarsi al buio della notte.

Poco dopo era già davanti alla piazza illuminata. La oltrepassò, ansimando, quasi correndo, rigida in uno stato catatonico di rabbia. I secchi rintronavano al ritmo dei suoi passi svelti. Quei solchi di fuoco le bruciavano ancora addosso.

I profili delle case sfumarono nel buio senza luna che avvolgeva i campi chiari di neve. E solo allora, dopo aver superato quelle colonne d’Ercole lasciò le lacrime libere di riversarsi lungo le  gote. Percorse un pezzo di sentiero, ascoltando i suoi passi sprofondare nella neve fresca.

Ha già ucciso… E ucciderà ancora…

Raggiunse il pozzo e riempì in fretta il primo e il secondo secchio. Poi, qualche metro più in là  vide un ombra prendere forma.  

“Giovanni?”

Si passò velocemente la mano sul volto per nascondere le lacrime. Sentì dei passi scricchiolare sulla neve fredda. Ne aveva abbastanza per quella sera. Alzò la mano pronta a colpire il ragazzo. Poi il suo polso venne bloccato da una stretta. Riconobbe i capelli raccolti nella retina che si stagliavano fra i rami degli alberi, come quelli di un demone. Lanciò un grido. Una mano le tappò la bocca.

“Ssssst… Non ti conviene urlare…” disse la voce roca.

Respirò affannosamente attraverso le narici l’aria della notte che si mischiava all’odore sconosciuto dell’uomo. Cercò istintivamente di scappare, ma l’uomo la tenne stretta per il polso aumentando al pressione a ogni suo movimento. Solo quando lei, smise di opporre resistenza sentì la mano sulla sua bocca lasciarla lentamente libera di respirare.

“Che fai in giro tutta sola, Letizia?”

“Come sai il mio nome?” disse ansimando.

“Lo so è basta. Le domande le faccio io. Rispondimi.”  Quella voce dal timbro basso vibrò nello stomaco di Letizia come se avesse la capacità di entrare dentro di lei.

“Sono venuta a prendere l’acqua...”

“Tuo padre ti picchia se non lo fai?”

Letizia fece per rispondere, ma non ci riuscì. Sentì un accenno di risata sarcastica sfuggire dalle labbra dell’uomo. Uomini, tutti maledetti bastardi, pensò. “Che vuoi da me?”

L’uomo, strinse violentemente il polso di Letizia facendola sussultare. “ L’azzardo è una qualità che so apprezzare, ma fai attenzione, ragazzina. Lavori nella taverna. Cosa sai di me?”

“Che sei un assassino. E che hai ucciso tuo padre. In ogni caso tutti sanno che sono venuta al pozzo a prendere l’acqua. Non passerà molto prima che qualcuno venga a cercarmi…”

“Sei una figlia di nessuno, Letizia, ricordatelo. E nessuno verrà a cercarti.”

Lo vide sporgersi verso l’interno del pozzo. “Più guardi dentro l’abisso, più l’abisso guarda dentro di te” disse. “Sai, in galera si imparano tante cose per passare il tempo. Letizia, vuoi sapere come si diventa un assassino?”

Il respiro le si bloccò in gola  Sentì che quelle parole potevano contaminarla, come se fossero più pericolose di ciò che l’uomo poteva farle. “No!” urlò  cercando di tapparsi le orecchie senza quasi rendersene conto.

 “E invece mi ascolterai.” L’uomo le afferrò entrambi i polsi e glieli strattonò verso il basso.

“Molti anni fa, quando tu non eri ancora nata, io vivevo in quella casa sulla collina. Mio padre lavorava nella montagna ed estraeva carbone. Quando tornava a casa, la sera, voleva che la cena fosse sempre pronta. Soprattutto voleva che sulla tavola non mancasse mai un fiasco di vino che spesso finiva già dopo cena. E se le cose non andavano così, lui dava una ripassata a mia madre per metterla in riga. E già che c’era la dava anche a me.

Col tempo mio padre bevve sempre di più. Spesso dopo il lavoro si fermava nell’osteria del paese. E tuo padre gli dava da bere fino a notte fonda…”

Letizia non sentiva più le punte delle dita dei piedi e delle mani per via del freddo. Dei tremiti cominciarono a scuoterla. Cominciava a intuire cosa voleva da lei quell’uomo.

“…Quando tornava, spesso svegliava mia madre nel cuore della notte, picchiandola senza motivo. Un giorno tornò parecchio tardi. Si vedeva che aveva bevuto parecchio. Disse che la carne nel piatto era fredda. Mia madre gli rispose che non poteva aspettarlo alzata tutta la notte. Lui la picchiò come faceva sempre, poi prese un tizzone ardente dalla stufa e lo usò su di me. Quando ripresi conoscenza mio padre stava stuprando mia madre sul pavimento della cucina.

Il giorno dopo lo aspettammo alzati fino a tardi. Gli servimmo la cena e il vino, così come lui voleva. Poi, mentre mangiava, mi avvicinai a lui da dietro, gli legai un laccio delle scarpe intorno al collo e strinsi quanto potei, fino a quando lui non si accasciò sulla sedia. 

Quella notte tagliammo in pezzi il suo corpo e lo mettemmo in un sacco che  trascinammo poi lungo la strada. Superammo la collina e raggiungemmo i forni di carbone che fumavano incustoditi nel cuore della montagna. Gettammo il corpo di mio padre in un forno fino a quando non lo vedemmo bruciare.

Solo al ritorno ci rendemmo conto di quanto avevano fatto. Lasciammo passare la notte, poi il giorno dopo facemmo i bagagli e scappammo. Fuggimmo lungo impervi sentieri di montagna, dormendo insieme in grotte gocciolanti e in ripari di fortuna…”

I denti di Letizia  battevano. Le sue mani avevano perso quasi completamente sensibilità. Solo, l’uomo non la stringeva più, sembrava quasi tenerle la mano, come se avesse solo paura che lei scappasse. Parlava come se fosse in uno stato di incoscienza. Ormai il suo sguardo era perso lontano, verso quell’orizzonte in cui mischiavano la neve bianca e il cielo nero. Come in cerca di un’espiazione.

“…il proprietario di un rifugio in cima alla valle che mia madre conosceva ci nascose in cambio dei nostri servigi. Lì rimanemmo nascosti per qualche mese. Di giorno in giorno però mi madre si sentì sempre più debole, fino a quando alla comparsa delle nausee, ebbe la certezza di essere incinta.

Un giorno i carabinieri che già ci stavano cercando da qualche mese bussarono alla porta del rifugio. Feci scappare mia madre dalla porta del fienile nella speranza che potesse farcela. Io restai dov’ero. Non opposi resistenza. I carabinieri mi arrestarono e mi portarono in galera dove rimasi fino a pochi mesi fa.

Ecco come si diventa assassini…”

Letizia lo guardò. L’uomo ansimava quasi. Eppure i suoi tratti sembravano essersi leggermente distesi. Come se qualcosa dentro di lui fosse sciolto. Come se si fosse liberato di un fardello ormai  diventato insostenibile da portare da solo.

“Che ne fu di sua madre?”

“I carabinieri la trovarono solo più tardi. Io non la rividi ma più. Morì qualche settimana dopo aver partorito.” L’uomo sembrava spossato, si appoggiò al muretto del pozzo per sostenersi. “Ma prima lei riuscì a spedirmi una foto di quel figlio. Una foto che ho portato sempre con me, vicino al mio cuore, tenendola dentro ogni mio guanciale, perché mi aiutasse a sognare ancora… un figlio che era anche mio...”

Letizia sentì il sangue farsi acqua. La voce dell’uomo si ruppe. Ormai le stava solo tenendo la mano e anche lui tremava. “Siamo entrambi figli di nessuno… Non vedi? Quando tu manchi nessuno ti viene mai a cercare…”

Forse quell’uomo aveva ragione. Per lui non provava più odio o paura, ma solo una profonda compassione per la colpa che era costretto a portare. Qualcosa nella disperazione di quell’uomo apparteneva anche a lei.

“Ho bisogno di restare solo…” disse poi.  

Lei rimase ferma, per un attimo titubante. Poi decise di rispettare la volontà di quell’uomo, come se tutto quelle parole gli fossero servite solamente per confessare quell’ultima verità. Le loro mani si sfiorarono lasciandosi.

 “Addio” disse Letizia, poi afferrò i secchi e si allontanò sui suoi passi. Dopo qualche metro si voltò. Lui guardava ancora verso il fondo del pozzo.

“Augusto…”

L’uomo alzò per un attimo la testa.

“Perché hai voluto raccontare questa storia proprio a me?”

Nel buio, sul volto di quell’uomo sembrò disegnarsi un sorriso. Poi sbottò in una risata feroce.

 

Il giorno dopo Alberta, una massaia si alzò presto e si recò al pozzo. Trovò la corda tesa e la carrucola a fine corsa. Guardò in fondo al pozzo, e lanciò un grido.

Ci vollero tre uomini per tirarlo su. Il gancio per i secchi gli aveva sfondato il palato e fuoriusciva dalla sommità del capo. I lunghi capelli, simili ad alghe nerastre, sciolti fino a oltre le spalle, lasciavano intravedere il volto tronfio e bluastro dall’acqua. 

Letizia arrivò quando il suo corpo era ormai adagiato sulla neve bianca, circondato da donne che intervallavano segni della croce a preghiere mormorate sommessamente.

“E’ lui” disse uno degli uomini del paese guardando all’interno del portafogli di cuoio di Augusto. “Nessuno in paese poteva riconoscerlo dopo tredici anni…”

Letizia si sentì per un attimo mancare. Tredici anni. Un dubbio a cui non riuscì a dare forma cominciò a farsi strada dentro di lei.  

Vide una donna che aveva già cominciato raschiare via il sangue dal gancio. La carrucola sarebbe tornata girare e il pozzo a funzionare. Idraulica e meccanica sarebbero ritornate al servizio della sopravvivenza.

Ma non per lei. 

“Giovanni, te la sentiresti di fare una cosa per me.”

Il ragazzo si voltò verso di lei. “Devi accompagnarmi nella casa di Augusto.”

 

La porta si aprì cigolando su uno stretto tinello. Sui muri erano appesi degli utensili impolverati. Su lato sinistro una scala dalle assi marcite si inerpicava verso il piano superiore.   

Giovanni prese Letizia per mano e fece strada, tastando col piede la scala pericolante. Giunsero al piano superiore. Aprirono un porta dal vetro smerigliato che dava su una grande sala oscura. Un tavolo al centro della cucina, una poltrona dalle stoffe sdrucite mangiate dai topi, un lavandino incrostato con qualche tegame e una stufa.  Nell’aria odore di fumo, l’unico segnale della presenza di Augusto negli ultimi giorni.

“Letizia, cosa stai cercando?”

Lei non rispose, vide il suo volto riflettersi sulla superficie di un vecchio specchio graffiato, come attraverso una nuvola di pioggia obliqua.

Da una porta aperta sul lato sinistro dava su un angolo della  camera da letto nel quale si intravedeva un letto sfatto e una vecchi credenza. Letizia e Giovanni entrarono. Una luce flebile filtrava attraverso i tendaggi mangiati dagli insetti. Letizia si avvicinò al guanciale del letto, mentre sentiva il cuore pulsarle nelle tempie.

Dentro ogni mio guanciale, perché mi aiutasse a sognare ancora…  

Prese il cuscino dalla fodera logora e sporca. Lo sbatté una, due, tre volte con violenza sul letto, fino a quando le piume non invasero la stanza.

Una piccola fotografia planò delicatamente a terra.       

Letizie la prese e l’avvicinò a sé. Una vecchia foto ingiallita di una bambina in fasce, avvolta da una coperta, tenuta stretta da delle mani femminili non più giovani. 

Aveva un piccolo neo sopra il labbro sinistro.

Letizia urlò, poi scoppiò a piangere, si accasciandosi tra le braccia di Giovanni che la strinse più forte che poté.

 

Qualche mese dopo…

Dalla finestra i raggi di sole della primavera si riflettevano sulla vecchia credenza lucida. Un soffio di vento fece sventolare per un attimo i lunghi tendaggi di cotone chiaro. Letizia si stirò tra le lenzuola e appoggiò il volto sul cuscino che sapeva di bucato.

Giovanni sbuffò una zaffata di fumo e ridacchiò, poi le accarezzo la schiena nuda e imperlata di sudore dopo l’amore appena fatto. “Vuoi che chiuda la finestra del nostro nascondiglio?”

Letizia si tirò su coprendosi i seni con il lenzuolo e allungò la mano verso il comodino. Girò la manovella della radio. L’altoparlante gracchiò per un attimo, poi trasmise le note della Ninna nanna di Trilussa.

“Lasciala aperta, non ho più freddo ormai.”

Dalla strada lontana arrivò il rumore ritmico degli scarponi di un plotone di avanguardisti in marcia che inneggiava al Duce. L’uomo che aveva preso le sembianze di quel padre che tutti cercavano, pensò Letizia. Perché tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, giovani e vecchi, di fronte al mistero della morte, gli uomini hanno bisogno di punti fermi e certezze, e sono tutti e allo stesso modo, solo figli di nessuno.