A proposito di Die Hard-Vivere o morire, si scriveva della necessità in qualche modo “etica” di cui qualcuno dovrebbe farsi carico in modo da impedire l’eccessiva proliferazione dei sequel così da interromperli al massimo al terzo episodio. The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo a firma di Paul Greengrass, è per l’appunto il terzo episodio della saga Bourne e pare fatto apposta per confermare come il terzo capitolo sia quello critico, dove o si mantiene, sempre se capaci, il livello degli episodi precedenti, o si inizia ad avere il fiato corto, sintomo questo che preannuncia l’inevitabile declino. Non sappiamo ora cosa accadrà della saga di Bourne, anche se visto il finale è lecito attendersi un quarto capitolo, impariamo però che a volte il terzo episodio può risultare, ed è questo il caso, addirittura migliore dei precedenti. Fondamentalmente i punti di forza della pellicola provengono tutti esattamente da dove è lecito aspettarsi che provengano, ma dove non sempre si trovano, ossia nella regia, nel montaggio, nella sceneggiatura. La regia di Greengrass è quella già nota e visibile in film come Blood Sunday, United 93, Bourne Supremacy (l’episodio precedente a questo…), una regia fatta pressoché per intero di macchina a mano (perfino nel più classico dialogo ripreso in campo-controcampo i margini dell’inquadratura sembrano fatti di gelatina per come tremano…) capace di consegnare al montaggio una sequela di punti di vista estremamente dinamici che il montaggio, altro punto di forza del film, chiama a raccolta come meglio non potrebbe garantendo un’esemplare chiarezza di fondo che permette di seguire con disinvoltura anche le azioni più complesse, tagliando sì tanto, ma solo per mostrare meglio: fuori tutto il superfluo e dentro tutto ciò che è essenziale, insomma. Il risultato sono perlomeno due sequenze superbe: la prima all’interno della Waterloo Station, con Bourne che braccato da agenti CIA e da un killer, sfugge di continuo ai suoi inseguitori rimanendo in contatto con un giornalista che potrebbe aiutarlo, la seconda in quel di Tangeri, con Bourne lanciato all’inseguimento del killer di turno per impedirgli di raggiungere la vittima designata. Siccome se le cose vanno fatte vanno fatte bene, a sostenere il tutto dal “di sotto” spunta una sceneggiatura che non dimentica, tra un inseguimento ed un altro, tra un brandello di memoria recuperato e un altro che sta per esserlo, di intingere la penna nel veleno quando si tratta di dare una strapazzata niente male alle malefatte dei servizi segreti americani con, nella fattispecie, una struttura deviata della CIA responsabile della messa a punto di un’operazione undercover denominata Backbriar allo scopo di progettare e portare a termine l’eliminazione di individui sospetti (il che richiama alla memoria quanto accadeva nell’indimenticabile I tre giorni del Condor, capolavoro che in termini di denuncia non scherzava affatto…). Pazienza poi se la recitazione di Matt Damon e quella della sua partner (per un breve tratto della storia) Julia Stiles (nei panni di Nicky) rasenta spesso la catatonia (magari è stile pure quello). Regia, montaggio, sceneggiatura, sono più che sufficienti per far marciare il film come un treno, al punto che anche l’apparente “sparata” che lo definisce “il miglior film d’azione degli ultimi dieci anni” a visione avvenuta non pare tanto campata in aria. Di sicuro Bourne è il perfetto antiBond. Tre premi Oscar: miglior montaggio (ma va!), miglior sound editing, miglior sound mixing.