Non è ancora giorno e mi sveglio con l’odore di polvere del cuscino che mi blocca il respiro. Ho mal di stomaco e dappertutto i muscoli sono duri come sassi. Vorrei alzarmi, ma non ci provo neanche. So già di non farcela. Vorrei guardare fuori, stare in punta di piedi sullo sgabello e aggrapparmi alle sbarre, poi, con la faccia premuta contro il freddo del metallo, respirare l’aria della vita che circola per strada. Ma lo so che al di là della finestra non c’è nessuna strada. Solo il nulla, il nero della notte, e lo sguardo non può andare oltre, muore contro il grande muro di cinta che uccide la voglia di essere libero.

Sono chiuso in questa manciata di metri quadri, in una cella con le pareti grigie, più scure da metà in giù, più chiare verso l’alto, con le bolle di intonaco scrostato.

Sono incredulo. Prigioniero della mia paura.

Riesco solo a pensare alle pianure infinite di casa mia, a sentire l’odore selvatico di quegli spazi raccolti tra valle e valle, quasi un deserto senza sabbia, che danno vita a un paesaggio lunare dove strisciano serpenti, senza anima viva in giro, senza case e strade, una steppa di cespugli alti come nani che diventano sempre più bassi man mano che si intrecciano boschi e foreste prima di arrivare al mare.

“Vendevo fiori.” Mi scappa a mezza voce. E rivedo la vecchia bicicletta che mi aspettava in stazione tutte le mattine, e quei sette chilometri di leggera discesa che alla sera diventava una faticosa salita per arrivare al lungolago, al solito posto, sempre quello, per vendere i miei fiori ai turisti. Poi qualcuno mi ha rubato la bicicletta, e chi sapeva qualcosa anziché darmi una mano mi ha insultato, picchiato, e detto di non farmi più vedere da quelle parti.

Sono andato via per non avere altre grane.

Sono andato in un’altra città, dove ho conosciuto Ramon, e lui mi ha detto vieni con me, è un lavoro facile facile, ti dò trecento euro, devi solo stare dietro di me sulla moto, e strappare la borsa a una donna. Io non sapevo se accettare, mi sembrava pericoloso, ma Ramon insisteva, mi batteva la mano sulla spalla e mi diceva di fidarmi di lui, che non mi avrebbe mai messo nei guai. E poi la donna era una colombiana, una puttana che doveva solo tenere il becco chiuso… e non farà storie, fidati di me, mi ha detto ancora Ramon.

Non porta mica della droga quella donna? Chiedo io. Niente droga. Stai tranquillo.

Vado con Ramon, e faccio quello che mi dice lui. Però quella donna che non doveva gridare e starsene buona buona, in realtà non mollava la borsa, come se ce l’avesse appiccicata alla mano, e ha fatto un casino d’inferno, così tanto che ho ancora la sua voce nelle orecchie, e a sentire tutto quel rumore il poliziotto è sbucato fuori dal bar, e si è messo a correre verso di noi. Quando l’ha visto arrivare Ramon ha cercato di scappare via, ma per la fretta ha sbattuto con la ruota contro il marciapiede e la moto è sbandata proprio nell’incrocio, e una macchina che arrivava dall’altra parte ci è venuta addosso. Ramon ha picchiato la testa contro la macchina, ed è svenuto, e io stavo seduto per terra con quella borsa stretta tra le mani e la pistola del poliziotto piantata in mezzo agli occhi.

“Vendevo fiori.” Ripeto come se stessi pregando.

“Cosa stai dicendo?” l’altro ospite della cella fa sentire la sua voce. Compare nella mia vita con la discrezione di un fantasma. Mi fissa con gli occhi che brillano di una curiosità morbosa.

“Vendevo fiori.”

“Ma che combinazione. Lavoravamo nello stesso ramo. Io vendevo erba. - Si solleva sul fianco, e sbadiglia. Non so nemmeno come si chiami. Io sono qui dentro da ieri pomeriggio, non ci siamo neanche guardati in faccia, lui leggeva e io mi sono steso e sono rimasto accucciato fino adesso - di la verità, non è che ti hanno ingabbiato perché vendevi fiori appassiti?”

Siamo divisi da due comodini di ferro, il suo stracarico di roba, libri, penne, un orologio, una bottiglia d’acqua, il mio senza niente, senza un segno di vita. Lo specchio del mio spirito.

L’altro mi sembra bello sveglio ma non dice altro. Prende un libro, si appoggia con la schiena al letto sistemando il cuscino alla meglio.

“Leggi sempre?” gli chiedo.

“Cosa vuoi fare qui dentro. Leggo, mangio le arance che mi porta mia madre, me ne porta talmente tante che forse è per questo che è nata la leggenda delle arance ai carcerati, e mi faccio le seghe. E la giornata finisce. Poi ne ricomincia un’altra più o meno identica, e vai avanti così.”