Si potrebbe dire che Gianfrancesco Turano, in un certo senso, è un avanguardista, uno sperimentatore. Oppure un autore postmoderno. In ogni caso, il suo marchio di fabbrica è mischiare presente e passato.

Bella novità, bella avanguardia, direte voi.

E invece no, la smentita è presto pronta: qua l'operazione è prevalentemente linguistica, di stile.

Un modus scribendi evidente anche nel precedente e sorprendente Catenaccio! (non trattato in queste pagine perché non giallo-nero) in cui il calcio è raccontato con roboante e ironica epica dal retrogusto classico.

Paradossalmente, il romanzo più tradizionalista di Turano è Ragù di capra, che fa capo a un genere, il noir, che per data di nascita è il più moderno.

In questo L'ultima bionda, si incontrano e si scontrano archetipi che vanno dalla tradizione cavalleresca (l'eroe e la pulzella), alla letteratura russa, anzi "dostoieschica", fino a una specie di hard boiled in bermuda.

In definitiva un buon romanzo, dal quale però, viste le premesse, ci aspettavamo di più. Più direttamente: non colpisce come come Ragù di capra (prima di questo romanzo il noir ambientato in Calabria era terra di nessuno) e non diverte come Catenaccio! (da spanzarsi dalle risate).

Transizione? Solo la prossima prova letteraria potrà dirlo.

Anche se L'ultima bionda gode di passaggi degni di nota, da sottolineatura insomma, come:

"Doveva essere bello, dopo secoli di meridionalità, sentirsi occidentali anche in Sicilia e custodire il diritto di ammissione fra i privilegiati che, per quanto umili, hanno qualcuno sotto".