Viaggio segreto dice il titolo, ma il segreto non è tanto segreto. Non lo è perché la scelta è fin da subito, come d’altronde accadeva in La sconosciuta, quella di svelare piuttosto che sospendere, vuoi attraverso i sempre utili flash back, vuoi per mezzo di scene à la Bergman (Il posto delle fragole) con il passato che semplicemente rivive davanti al protagonista che vi partecipa come osservatore, per quanto invisibile.

I turbamenti del giovane Leo (Alessio Boni) hanno inizio allorquando gli giunge per via traverse la notizia del matrimonio di Ale, la sorella tanto amata, col pittore Harold (Emir Kusturica), turbamenti legati alla casa d’infanzia che abbandonata all’età di tredici anni all’indomani dell’omicidio della madre, sta per essere riconsegnata sotto forma di regalo di nozze da Harold alla stessa Ale, anche lei rimasta traumatizzata dalla drammatica esperienza.

Per come si mettono le cose e per le informazioni che non mancano, si intuisce subito che l’unico segreto celato nelle pieghe del racconto si riduce ad un semplice calcolo statistico che ripartisce tra i presenti all’epoca sulla scena del delitto, padre, figlio e figlia (trentatré, trentatré, trentatré…) la responsabilità dell’uccisione della madre (Claudia Gerini). La tripartizione però dura un istante visto che siccome in qualsiasi giallo che si rispetti nulla alla fine è ciò che sembrava all’inizio e il più sospetto è per certo il più innocente di tutti, la scelta del colpevole si riduce a due personaggi (cinquanta e cinquanta quindi…).

Accanto al whodunit, alla cui soluzione si assiste senza il benché minimo di interesse, Roberto Andò a partire dal romanzo Ricostruzioni di Josephine Hart ricostruisce di suo un apparato edipico-psicanalitico-simbolico-autoriflessivo tutt’altro che originale, più spesso didascalico, alla fine stucchevole, capace soltanto, questo sì, di ripassare fedelmente da cima a fondo tutto l’armamentario relativo a tali temi e che annovera le seduzioni madre-figlio, quelle padre-figlia, le scene primarie, la professione che in casi del genere è più facile che ci sia piuttosto che mancare, con Leo/Boni nei panni e soprattutto negli occhiali di uno psicanalista, e in più varie declinazioni del tema-simbolo “acqua” sotto forma di acquari, mare, lacrime (su dieci scene in otto Boni piange sommessamente…).

L’ultimo aspetto, quello autoriflessivo, elemento anche questo a pensarci bene immancabile in un film così con tutti i rischi di appesantire ulteriormente una struttura già pesante di per sé, è assegnato di diritto alla figura di Harold, vero e proprio alter ego di Andò, impegnato lungo tutto il film prima a visionare materiali filmati e non riguardanti fratello e sorella per poi, dopo averli assemblati, renderli pubblici (vedi mostra finale…), aiutando i due a fare i conti con un passato che preme come un macigno sul sottile diaframma che lo separa dal presente.

Su tale tema niente da dire (Old Boy, ebbene sì, ancora lui, docet…) ma su come la materia è trattata invece molto (da dire…).