Ha un sorriso molle che gli taglia la faccia in due, e come lo vedo capisco subito che qualcosa non quadra. Preferisco fare finta di niente quando si sposta di lato per lasciarmi passare prima di lui. Alle spalle sfumano i rumori della fiera, rimbalzano contro la porta chiusa per difendere l’intimità della toilette. Dentro c’è odore aspro di limone, mescolato a candeggina e disinfettanti. Sento il peso di quella presenza estranea, la sua energia, il suo fiato sul collo. Cammina dietro di me con le scarpe che scricchiolano a segnare il ritmo pacato del suo passo. Mi ricordano quelle lucide di vernice nera che mia madre mi obbligava a mettere nei giorni di festa quand’ero bambino.

Non c’è nessun altro, oltre a noi due. E il silenzio imbarazzante che avvolge tutto l’ambiente mi stuzzica a lanciare una sfida allo sconosciuto.

Passo davanti ai gabinetti vuoti, con la porta socchiusa. Scelgo l’orinatoio più distante, al capo opposto dello stanzone tutto piastrellato di bianco come una macelleria. L’altro non si scrolla di dosso, e fa esattamente quello che temo. Si accosta volutamente al mio fianco con una mano sulla cerniera dei pantaloni e l’altra ad accarezzare i pochi capelli rossicci, lisci, appiccicati tra di loro, in un taglio da scodella in testa.

Mi fissa, e io faccio ancora finta di niente. Però il gioco mi ha preso la mano. Gusto un certo sapore, un certo un nonsoché che mi stuzzica e mi fa dimenticare il barlume di tensione che incomincia a irrigidirmi i muscoli delle gambe.

Aspetto solo un suo gesto.

Lui è puntuale. Allunga il collo come uno struzzo, interessato più a quello che sto facendo che non alla mia faccia. Indurisco lo sguardo, e lui replica con un sorriso freddo, morboso. Gli chiedo cosa vuole, cosa sta cercando. Parlo senza alzare il tono di voce, senza farmi prendere dal piacere dell’insulto, senza voler esasperare subito la situazione.

Lui tace, ma insiste a tenermi gli occhi addosso, e il suo viso si illumina di un calore diverso, come se le mie parole gli procurassero un piacere sottile.

Non mi sono mai trovato in una situazione del genere.

La tensione sale piano piano fino allo stomaco ormai contratto in una morsa dolorosa. Tiro su la cerniera dei pantaloni, con gli occhi puntati verso il basso, con aria distratta. Poi d’istinto lo prendo per la giacca, lo strattono, lo spingo contro la parete chiusa tra due orinatoi, e lo colpisco sulla faccia con il dorso della mano, anche se questo non fa parte del gioco, almeno per come me lo ero immaginato fino a pochi istanti prima.

Ma il mio gesto è sfuggito a ogni controllo razionale.

Lui ondeggia per un istante, e io lo colpisco ancora. Si lascia scivolare lentamente verso il basso fino ad appoggiarsi a terra con il tronco perpendicolare alle gambe stese, come un burattino abbandonato in un angolo della cantina.

Non sono incazzato però ho voglia di fargli male. Forse per placare un senso di nausea che mi sale in gola, acido come l’odore di quel gabinetto.

E per sua sfortuna non c’è nessuno oltre noi due.

Sono sopra di lui, e lui tace.

Sto zitto anch’io. In fondo non abbiamo niente da dirci.

Mi inchino quanto basta per appoggiargli indice e pollice attorno al collo. Premo leggero sulle ghiandole molli dietro la gola. Lui inghiotte, e io stringo più forte, lui chiude gli occhi e dilata la bocca. Non fa un gesto, anche quando il suo respiro diventa più pesante. Forse ha paura, ma forse gode di quella situazione. Lascia le braccia a terra, non fa un movimento neanche per cercare di divincolarsi, per reagire magari aggrappandosi alla mia camicia, o alzando un ginocchio per colpire la parte di me che tanto lo interessa e sbarazzarsi di un pericolo che gli penzola sulla testa come la spada di Damocle.

Lo tengo sotto controllo con quella specie di tenaglia fatta con le dita che lo immobilizza a terra. Quando cerco di staccarlo dal muro per avvicinarlo a me, lui fa un piccolo scatto. Lo vedo infilare una mano in tasca, mugola qualcosa che non capisco, poi alza il braccio e mostra un guinzaglio sottile sottile.

Allento la presa e lui mi dice colpiscimi… e lo dice con un tono viscido, schifoso.

Cristo santo, riesco solo a pensare, e gli sbatto la testa contro il muro, una volta, due, tre. Lascia cadere il guinzaglio e prova ad accartocciarsi per difendersi dalla furia. Raccolgo il laccio. Lo frusto dove capita… cos’è, cos’è questa roba? pervertito... urlo, e non mi frulla altro in testa, se non il gusto di quella violenza morbosa, con gli odori che hanno ormai perso consistenza, con il vuoto di rumori attorno a me, il bianco delle pareti sempre più opaco, e le linee del contorno dei cessi che sfumano alla vista.