Vittorio Paganini, funzionario di polizia, ha vinto il premio Tedeschi 2004, guadagnandosi la tradizionale pubblicazione sul Giallo Mondadori di dicembre; riporto la motivazione espressa dalla redazione: “Per la lucidità della ricostruzione, che rivela una precisa conoscenza della materia; per il sapiente intreccio temporale che imprime alla vicenda la scansione del thriller; per la sofferta umanità del protagonista, integralmente votato alla causa della giustizia ma responsabile con le proprie decisioni della vita o della morte dei compagni”.

Il giudizio è veritiero, indubbiamente, Il sequestro è un buon romanzo, ma resta tale e non spicca il volo.

È vero, l’autore dimostra “una precisa conoscenza della materia” (è un poliziotto, sa cosa vuol dire rischiare la vita), che distribuisce con sapienza nel tempo narrativo, la ricostruzione è sì “lucida”, ma la lucidità da sola non basta a rendere questo romanzo eccellente.

La scrittura in prima persona va dosata, specialmente quando c’è un riferimento forte alla realtà e quando il protagonista in questione è il capo di una squadra dei NOCS. I rischi sono fondamentalmente due: primo, poiché le conclusioni e i ragionamenti sono tutti esclusivamente di un personaggio, si rischia di non lasciare respiro al lettore, nel senso che viene meno la capacità di questo di trarre conclusioni da sé; secondo, sempre per la mancanza di un “metro di paragone”, di creare una specie di specchio convesso che potrebbe distorcere la realtà; ad esempio, quella che è la giusta caratterizzazione di un personaggio, come il fatto che un poliziotto chiami sempre i banditi “bastardi”, può essere travisata dal lettore medio come una generalizzazione, e si sa, generalizzare non aiuta a comprendere la realtà. È vero, i sequestratori sono delle persone che compiono un delitto terribile nei confronti della dignità dell’uomo, ma non si può correre il rischio che il lettore pensi che siano l’incarnazione del male assoluto; sono anche dei disperati, gente che vive in regioni disagiate d’Italia, uomini la cui vocazione criminale viene alimentata dall’arretratezza, dall’abbandono e dal disagio della terra che gli ha dato i natali. Ecco, una battuta, anche veloce, che accenni a questo fatto e non ci sarebbe alcun rischio di travisare la realtà.

Attenzione! Questa non è una presa di posizione verso la polizia né tantomeno un’apologia della criminalità, è solo un appunto ad un aspetto del romanzo, e cioè all’uso della narrazione in prima persona.

Ad un lettura attenta si capisce che l’intenzione di Vittorio Paganini è quella di dare il punto di vista di un poliziotto, uno che rischia di morire per il suo lavoro al servizio della collettività. Ci riesce bene, anche se, probalilmente, si lascia guidare un po’ troppo dal coinvolgimento molto forte dell’essere egli stesso un poliziotto.