Seo-young (Chun Woo-hee) sembra camminare nella vita in punta di piedi: silenziosa, timida e un po’ ingenua, si accontenta di osservare le cose e le persone rimanendo in disparte, senza chiedere nulla per sé. Il suo starsene chiusa in una bolla di solitudine imbarazzata in ufficio ha in realtà una motivazione fisica: una lacerazione del timpano le causa infatti continue vertigini, togliendole la concentrazione e distaccandola dal mondo circostante, facendola letteralmente sentire “soffocata, come dentro uno spazio vuoto”. Per lei anche solo stare davanti al computer può trasformarsi in una tempesta in grado si sfuocare l’orizzonte e rovesciarne l’apparente superficie solida che le permette di sopravvivere alla solitudine e all’incomunicabilità. La vertigine e lo sfuocamento della realtà rappresentano però anche una metafora della sua intera esistenza di donna a livello sociale, lavorativo, familiare e sentimentale: Seo-young non ha amici, se si eccettua la collega Ye-dam (Park Yeyoung), che la considera una sempliciotta e passa il tempo a snocciolare consigli su come farsi strada nell’ambiente lavorativo maschilista di Seoul; non partecipa attivamente ad eventi di svago aziendale come le serate di karaoke, visto che non sa cantare, limitandosi a guardare quello che fanno gli altri; accetta passivamente le richieste di soldi di sua madre (Jeon Guk-hyang), con cui scambia pochissime parole di circostanza al telefono; non da ultimo, intrattiene una relazione clandestina con l’ambitissimo Lee Jin Soo (Teo Yoo), uno dei responsabili dell’ufficio che lei venera come una divinità, aggrappandosi a un ideale forse immaginario senza riuscire a vedere come l’uomo la ignori sia in presenza di altre persone (con la scusa di non voler essere scoperto) sia quando si ritrovano da soli dandosi appuntamento al bar Vertigo.

Tutta la vita di Seo-yeung è, a ben vedere, un vuoto fragile fatto di riflessi sfuocati dove ogni elemento ̶ l’amore, l’amicizia, la famiglia, il lavoro  ̶  può svanire da un momento all’altro, una volta messo a fuoco nella sua crudele o inutile verità. Attraverso il progressivo incedere delle vertigini, intervallato dal passare delle giornate scandito da previsioni metereologiche, assistiamo all’implosione di ogni elemento che compone la vita di Seo-yeung, il cui equilibrio precario costantemente sull’orlo del disastro è simboleggiato dal sopraggiungere di una nuova presenza: l’operaio Gwan-woo (Jeong Jae-kwang), che tutti i giorni si cala sorretto da un’imbracatura di acciaio contro le vetrate del palazzo per pulirne la superficie, finendo per incontrare lo sguardo di Seo-yeung e rimanendone rapito.

Scritto e diretto dal regista sud coreano Jeon Gye-soo, Vertigo è il ritratto quasi sotto voce di una donna sola che si ritrova schiacciata dagli eventi, causati, sembra dirci il regista, soprattutto da una società sessista che sminuisce le donne, ma le cui regole le donne stesse non sanno o non vogliono sovvertire. Indicative in tal senso sono le “lezioni di vita” fornite da Ye-dam, che spiega quasi divertita come in Corea del Sud, se una tirocinante vuole assicurarsi di ottenere un lavoro stabile, deve accettare di servire bevande al capo (e fargli dunque da cameriera), massaggiargli la spalla o prendere lezioni di danza se lui le dovesse mai chiedere di accompagnarlo ad una serata di svago in un club (diventando quindi una sorta di escort). La stessa Seo-yeung dimostra di accettare indirettamente la subordinazione femminile all’uomo nella sua vita privata attraverso l’atteggiamento di venerazione che mostra di avere per Jin-soo, e parallelamente arrivando a giustificare le azioni del padre assente nonostante il dolore da lui causato (e di cui porta ancora addosso le cicatrici). Forse è anche per questo che il film, nonostante i vaghi accenni di critica alla dimensione socio-culturale antifemminista della Corea del Sud, finisce per prediligere la sottotrama romantica, stemperando la sua vena più claustrofobica e disperata riaccendendo la speranza nella vita della protagonista (e in noi che ne osserviamo la storia) forse in maniera non del tutto imprevedibile. Sicuramente un tentativo apprezzabile, ma che inevitabilmente sfigura rispetto ad altri ben più potenti film (sudcoreani e non) presenti al FEFF 22 a tematica molto più marcatamente femminista e senza compromessi.