“In tutte le persone c’è una certa dose di aggressività, credo che in fondo sia una cosa naturale, un istinto che negli animali serve a sopravvivere. Ma penso che nel tempo per l’uomo sia diventata un’altra cosa, una tensione interna che nasce anche dalle situazioni più normali, dai rapporti con gli altri, dai desideri frustrati, dalla rivalità con qualcuno. O può nascere da qualche paura, da un modo un po’ malsano di vivere certi sentimenti e da molte altre cose che viviamo un po’ tutti. Quella tensione si deposita via via in fondo all’anima, diciamo così, in quella specie di pozzo profondo dove la ragione non arriva. E in qualche modo deve uscire fuori, deve sfogarsi.”

Per chi conoscesse Marco Vichi romanziere e non ne avesse ancora provato l’abilità come autore di produzioni brevi, Racconti neri (Guanda, 2013) è l’occasione giusta. Tredici racconti uniti dal leit-motiv del nero come colore, atmosfera e cifra narrativa, tredici salti negli abissi mentali, psicotici, nelle deviazioni malate e nelle parentesi assurde della nostra presunta normalità. Così capita, tra le altre cose, di ricordare insieme a un partigiano, di pedinare le giornate d’attesa di un tizio chiuso dentro a una torre (per poi scoprire che anche voi ce lo chiudereste dentro, per sempre), di respirare l’ansia di riscatto di un detenuto e le esperienze:

“In carcere i rapporti umani erano molto semplici ma anche molto complicati. Ci si sopportava senza lamentarsi troppo, ma i confini proibiti erano segnati con precisione, anche se nessuno li aveva mai scritti. La sensazione era di avere con gli altri una grande vicinanza e nello stesso tempo una lontananza incolmabile. C’erano equilibri fragili che era meglio non stuzzicare. Si andava avanti annusando l’aria e l’unica legge che contava era quella naturale, quella del più forte. Il resto non valeva nulla.”

Un tocco imprescindibile di alcuni contributi è il rimando storico – la storia più cara all’autore, ovvero quella del Novecento – e in tal senso il pezzo più bello e terribile è “Puttana” (comparso per la prima volta in History& Mistery, ed Piemme 2008), una vicenda cruda di una fanciulla che cerca vendetta, ma è un animo troppo puro per trovarla nel posto più sudicio del mondo – parliamo di sudiciume morale – ovvero nel villino/casino dove Mussolini e i gerarchi si sollazzavano, spesso in compagnia dei più truci esponenti del nazismo: Hitler, Goering, Goebbles, Himmler…

Una grande dote di Vichi – oltre a una scrittura morbida e precisa, ricca, che fluttua con disinvoltura dalle celle di prigione ai racconti preziosi dei vecchi, dalle notti al bar alle aule di tribunale, restituendoci con la stessa intensità pezzi di perdizione, speranze, rancori e altre debolezze – è la straordinaria capacità empatica. L’autore si cala nel vissuto e nel fittizio riconsegnandoli al lettore come se la storia fosse appena accaduta e lui si fosse intromesso nei panni dei protagonisti, ma con garbo, giusto lo stretto necessario per fotografarceli intatti, senza trascurarne nemmeno un’ombra.

Oltre al buio profondo e alle perversioni irrecuperabili di alcuni suoi personaggi – quanti padri esistono come Giulio? – oltre a queste umanità ritagliate con le loro distorsioni, si rinnova a ogni racconto la tragicommedia del quotidiano più nero.