Qualcosa si agitò nella memoria, adesso ricordava. C’era una donna nella sua stanza, una donna con i capelli rossi come i suoi, ma con il viso di Cloe. Era apparsa dal nulla materializzando dalla bocca un sottile sibilo freddo, come quando si apre lo sportello del freezer. Per questo Ebe si era tanto spaventata da fuggire in corridoio. Lei era uscita di corsa dalla stanza, inseguendo la gatta e poi la moto l’aveva investita. Oppure no? L’immagine di una giovane donna svenuta dai capelli rossi che veniva infilata in una macchina nera da due sconosciuti, si aggiunse a quella della ruota che girava insensata nell’aria piovosa. E Salvo, che avrebbe dovuto essere chino su di lei, amorevole e disperato, era invece un volto tra la folla in lontananza, intento a cercare un taxi per seguire la macchina nera che portava via Cloe.

Sospirò. Aveva di nuovo dimenticato di respirare. Proprio non le riusciva di fare entrambe le cose allo stesso tempo. O pensava o respirava, e se pensava a quel che le avevano fatto smetteva di respirare. Invece era così importante, respirare. Finché non ricordò quell’orrendo strumento a batteria con le lame rotanti come un frullino che le avevano infilato tra le cosce divaricate a forza. Ora non sentiva dolore, certo, gli antidolorifici facevano il loro dovere, ma non voleva, non poteva sopportare, di dover trascorrere il resto della sua vita così, menomata e sfigurata, mutilata e ferita. Esausta, decise di chiudere il contatto, e si lasciò andare di nuovo. Aveva deciso quello che doveva fare, se mai si fosse svegliata di nuovo avrebbe staccato quei tubi che la tenevano in vita, tutti quanti. E allora finalmente sarebbe morta. Avrebbe tagliato fuori quel mondo ostile in cui si era risvegliata.

* * *

L’alba entrò dalla finestra sottovoce. L’infermiera di turno era cambiata e si muoveva con leggerezza, cercando di non fare troppo rumore mentre apriva piano la finestra. Sentì il tepore del sole sul suo viso, quel viso che ricordava sfigurato dai colpi. C’era uno specchio enorme nella stanza e ogni tanto quell’uomo le sollevava la testa perché guardasse il suo corpo maciullato, o meglio, quello che ne era rimasto. Ti lascerò vivere, diceva, lascerò che ti trovino così, sfregiata ma viva. Dopo nessuno ti vorrà più. Così sarai stata solo mia. E poi colpiva ancora, afferrava nuovi strumenti, tagliava, incideva e lacerava senza pietà ma con fredda ossessione. Con rigore e precisione, come se stesse compiendo un lavoro certosino, da specialista. Un lavoro che doveva essere fatto bene. Fino alla fine. Ecco che ora stava prendendo il trapano. Un’ondata nera di petrolio viscido e schiumoso la sommerse, e lei si lasciò andare di nuovo.

* * *

Dopo molti giorni, finalmente aprì gli occhi e la prima immagine che vide fu quella di Salvo che dormiva su una poltrona, la barba lunga e la giacca stazzonata, l’aria di chi doveva aver trascorso in quel modo innumerevoli notti. A fianco a lui c’era la gabbietta di vimini con dentro Ebe, intenta a fare le fusa. Sorrise piano, aspettandosi di sentirsi tirare la pelle per le cicatrici. Invece nulla. Cautamente si tastò il seno, niente, nessuna benda, nessuna ferita. Rabbrividendo spinse una mano sotto le coperte, verso il pube, ma anche lì sembrava tutto a posto. Che fossero passati mesi, forse anni? Impossibile, da ferite simili non si guarisce così in fretta, anzi da ferite simili probabilmente non si guarisce mai. A un tratto nella stanza si fece il gelo. Là... in fondo al letto ora c’era Cloe. Aveva il viso e il corpo devastati dalle ferite, ma gli occhi sorridevano ancora mentre indicava con il capo verso Salvo. Poi scomparve lasciando solo un alone tremolante.

Quella notte, lei aveva fatto fuggire Ebe per salvarle la vita e prendere il suo posto, perché Salvo non rimanesse solo. Si chiese se lui avrebbe mai potuto capire. Se avrebbe dovuto saperlo. Decise di no.