Sono qui perché questa mattina, verso le otto, avevo ricevuto una seconda telefonata da mia madre. Anzi aveva risposto Francesca, che non si era spaventata quanto me, perché loro due si sentono spesso, di solito quando io non ci sono.

Me l’aveva passata subito, anche abbastanza perplessa: –

Vuole parlare con te, Antonio.

Avevo preso il cordless. – Dimmi, ma’.

– Ho ricevuto una telefonata, Nino. Hanno detto soltanto: “Oggi, alle dieci”. Hanno riattaccato subito.

– Hanno? Più d’uno? Uomo? Donna?

– Non fare il questurino con me. Una voce soltanto, contraffatta, per usare il gergo televisivo. Come se tenesse qualcosa in bocca.

– A che ora ha chiamato?

– Dieci minuti fa, preciso.

L’avevo ringraziata.

– Tutto bene, Nino?

– Sì, non preoccuparti.

– Perché dovrei? Non sei figlio mio! – E aveva riattaccato.

Mancano cinque minuti alle dieci. Sono salito da san Bartolomeo del Fossato, ora sto entrando nel cimitero.

È lunedì e c’è meno gente del solito, perché le rivendite di fiori sono chiuse.

Ricordo benissimo dove è sepolto Pietro Gambaro, poco lontano dal monumento ai partigiani con cui ha combattuto con nome di battaglia Primo.

Come ricordo il suo funerale e il dolore composto di mia madre. Era stato uno scherzo del destino che il mio primo caso a Genova fosse proprio l’omicidio di un vecchio amico di famiglia.

La tomba è come lui aveva chiesto, nel suo breve testamento: bara senza orpelli, lastra con il nome, il cognome e le due date. Nient’altro.

Né portafiori né spazio per un lume.

Nella zona ci sono soltanto io e comincio a chiedermi se ho sbagliato il posto dell’appuntamento. Se ho sbagliato tutto...

Vorrei, perché la persona che sto aspettando è latitante. E sono un commissario di polizia.

Quello che sto facendo è, come minimo, sul filo del rasoio della legalità.

Sono fermo davanti alla tomba di Primo tenendo le mani bene in vista. Sento dei passi sul ghiaietto e poco dopo vedo, riflessa sulla lastra di marmo, una figura d’uomo.

Resto zitto, lasciandogli la prima mossa.

– Sei venuto solo?

Non mi giro. – Ti aspetti risposta diversa da un sì?

Una risata breve e soffocata da un colpo di tosse, raschiante, da fumatore. – Hai rischiato, potevo spararti.

– Potevo tenderti una trappola – replico sullo stesso tono.

– E mi piace il rischio, se ne vale la pena. Per te ne è valsa la pena?

– Devo parlarti, non qui, non ora.

– Dove e quando vuoi.

– Aspetti dieci minuti, poi torni all’uscita. Niente telefonate.

Prendi il 66 che parte fra quindici minuti e passa da corso Martinetti, anche se c’è posto resti in piedi, vicino all’uscita, scendi a capolinea e percorri via Cantore restando sul marciapiede a mare, tagli per l’archivolto.

L’archivolto può essere uno solo, quello dove è stato ucciso Pietro Gambaro, nome di battaglia Primo.

Sono sul 66, quasi vuoto. Il bus sta affrontando la curva stretta e in discesa verso via Monti, quando la donna anziana seduta vicino all’uscita si alza barcollando. – Mi aiuti, giovanotto... – Veramente me lo dice in dialetto stretto mentre mi porge una sporta piena.

Con una mano le prendo la borsa e con l’altra cerco di tenerla in piedi in quella curva maledetta.

Sento la pressione alle reni e il sussurro: – Scendi.

Ok, come un pivello. Scendo. La donna mi ringrazia e riprende la sua sporta. Bella sceneggiata.

L’auto, una comunissima Panda, è vicina alla fermata. – Sali. Dietro.

Salgo.

Davanti alla tomba di Primo lui mi ha visto le spalle, ora io vedo le sue.

– La sceneggiata non era necessaria.

– Meglio essere prudenti, Celtique. – Il soprannome che mi ha dato tanti anni fa e che ha usato come esca.

– Potrei essere armato e spararti alle spalle.

– Non ti piace portare armi e non mi spareresti alle spalle.

È più sicuro lui di me, negli anni sono cambiato. – Perché no? Sei latitante e sono un poliziotto.

– Sarai anche un questurino di merda ma sei ancor più curioso e sei disposto a rischiare anche le palle pur di sapere perché ti ho cercato.

– E tu devi essere nella merda fino alle orecchie se cerchi un questurino. Mi vuoi per uno scambio?

Ride. – Sarebbero tutti felici se ti eliminassi. Ti farebbero un bel discorso sulla bara, cercando di nascondere il sollievo per non averti più tra le palle. – E poi: – Zitto.