Malgrado il termine abbia poco più di cinquant’anni, il grande gioco degli pseudobiblia affonda le radici nel lontano passato: non stupisca quindi se in questo articolo ci trasferiremo in piena metà del Cinquecento.

Qui incontriamo il fiorentino Anton Francesco Doni (1513-1574), fenomenale compilatore che forse subì il fascino della Libreria di San vittore - creata da François Rabelais per il “Pantagruele” (1532) - e non resistette al richiamo degli elenchi librari farciti di pseudobiblia.

Nel 1550 il Doni aveva stilato una “Libraria”, un elenco dove venivano presentati e commentati tutti i libri italiani dati alle stampe fino ad allora. Un’opera meritoria e di grande prestigio che vide una continuazione l’anno successivo. Nel 1551, infatti, il Doni compilò una “Seconda Libraria”, prendendo in esame stavolta tutti i testi non pubblicati, rimasti cioè solamente in forma di manoscritto, che egli aveva potuto visionare. (Nelle edizioni successive la lista dei manoscritti si ampliò sensibilmente.) Qui nasce il problema: se nessuno, a parte il Doni e il legittimo proprietario, ha mai visto le opere citate, come si può essere sicuri che il compilatore non si sia divertito a tirare un bello scherzo ai bibliofili di quella e delle successive epoche?

 

Ci sono autori facilmente identificabili, come il poeta fiorentino Lodovico Martelli (1503-1531), di chiara fama: curiosamente però il Doni cita le sue “Stanze alla fata Fiesolana”, che risulta essere un’opera mai giunta a noi. Oltre a questa citazione del Doni, infatti, l’unico a citarla pare essere solamente Giulio Negri nella sua “Istoria degli scrittori fiorentini” (Ferrara 1722). A pagina 364, trattando delle opere lasciate dal Martelli, per ultimo troviamo «Stanze alla “Fata Fiesolana”, trovansi mm.ss. presso Molti». Quando il Negri non poteva trovare un’edizione stampata, usava questa formula per indicare che comunque il testo esisteva in forma manoscritta (m.s.) e che era possibile consultarlo andando... a casa di “molti”! Il più delle volte era specificata la città e il luogo dove poter consultare queste opere non pubblicate, ma nel caso del Martelli la formula è vaga: siamo sicuri che l’esistenza di queste “Stanze” non sia stata ipotizzata a partire dalla citazione del Doni, duecento anni prima?

Troviamo Licinio Scropoli (il cui cognome ricorda un’unità di misura utilizzata all’epoca, dal latino scrupulus) e il suo “Murano”. «Havendo trovato un modo costui - spiega pungente il Doni - da lavorare i cristalli, & il vetro facilmente, n’ha fatto un libretto, & con questo pensa giovar molto all’arte».

Anton Francesco Doni
Anton Francesco Doni
C’è Luca Scalandrone (il cui cognome indica il ponticello che unisce le navi al porto) e il suo “Della bontà delle ruote, d’arrotare di tutte le sorte d’armi”. Luca Antonio Foraboschi e il suo “Dell’impronto di tutte le medaglie, & di tutte le monete, usate così da’ moderni, come da gli antichi. libri dodici”.

Il Doni non ha paura di scomodare i grandi nomi. Ci si può trovare un titolo vero - come “La monarchia” di Dante Alighieri - accanto ad uno falsamente attribuito - come la “Corona napolitana” di Giovanni Boccaccio - per poi ritrovarsi con veri e propri sberleffi: al celebre fiorentino Giovanni Villani, autore di una “Cronica” infinita che va dalla Torre di Babele alla Firenze trecentesca, viene infatti attribuito un “Sommario di tutte le Storie”! Stranamente il terzo padre della lingua italiana, Francesco Petrarca, non viene toccato dalla fantasia del Doni.

Vi troviamo Leprone Mignatta, autore di un singolare “Trattato di tutte le forti reti, paste, trappole, & istrumenti da pigliar pesci. Nuovi modi da star molto sotto l’acqua”: cosa aspettarsi da uno scritture il cui nome è omonimo di un fiume di Arezzo e il cui cognome è sinonimo di sanguisuga? Questo titolo rimase impresso al giornalista e scrittore vercellese Giovanni Faldella, che nel 1880 iniziò il suo diario di viaggio “Roma senza vedere il papa” con queste parole: «Il titolo è un po’ lungo e coniato all’antica. Infatti i nostri vecchi [...] spiegavano tutto il contenuto del libro. Ad esempio: [...] “Le prose di Leprone Mignatta, dove si passano in rassegna tutte le sorta di reti, paste, trappole ed istrumenti da pigliar pesci, e si insegnano nuovi modi di star sotto l’acqua, divise in sette capitoli, purgate e di nuovo con somma diligenza”, ecc.».

Allora questa “Seconda libraria” del Doni contiene quasi solo libri “supposti”? Qui viene la parte sorprendente: è noto che più potente della fantasia è la voglia umana di credere che una fantasia sia reale...

 

Ludovico Ariosto, incisione di R. Hart da una stampa di R. Morghen
Ludovico Ariosto, incisione di R. Hart da una stampa di R. Morghen
Il Doni attribuisce al celebre Ludovico Ariosto ben due testi: “Rinaldo ardito, dodici canti” e “Termine del desiderio”.

Nel saggio “Delle opere in versi, e in prosa, italiane e latine di Lodovico Ariosto” (Venezia 1741), curato da quel Francesco Pitteri che nel ventennio successivo avrebbe stampato il Vocabolario della Crusca, presentando l’opera letteraria dell’Ariosto il curatore specifica che «Molte altre cose, oltre le pubblicate, si trova scritto, che componesse per esercizio, e per prova». Poi aggiunge in nota: «Per chi ha cognizione delle stravaganti fantasie del Doni è inutile il dire, che furono invenzioni di lui, che l’Ariosto componesse: “Rinaldo ardito, dodici canti e Termine del desiderio”. Ma sia detto per chi può essere ingannato dalla Seconda Libreria di colui, come lo fu Pellegrino Orlandi, che nelle sue “Notizie degli Scrittori Bolognesi” [1714] all’errore di far Bolognese l’Ariosto dopo centro cinquant’anni, che da Bologna ne partì la Famiglia, accoppiò l’altro di far l’Ariosto l’autor di que’ Libri fantastici». Stranamente in nessuna delle edizioni dell’opera citata di Pellegrino Antonio Orlandi viene citato Ariosto o la sua opera... che anche il Pitteri si sia divertito ad inventare una falsa attribuzione?

Ancora nel 1810 Samuel Johnson faceva notare che il Doni attribuiva due opere all’Ariosto «neither of which appears to have printed», “nessuna delle quali risulta essere pubblicata”. L’inglese Johnson specifica in nota che non è che stia parlando per conoscenza diretta: si sta rifacendo a quel conte Giammaria Mazzucchelli che nel 1753 scrisse il celebre saggio “Gli scrittori d’Italia”, dove viene appunto citato il Doni e dove si fa pesare la dubbia fama che accompagna i titoli da lui riportati.

Siamo quindi sicuri: il Doni si è divertito ad inventare due false opere da attribuire ad un vero autore... E allora come si spiega che nel 1846 la Tipografia Piatti in Firenze pubblica “Rinaldo ardito. Frammenti inediti” pubblicati sul manoscritto originale da Innocenzo Giampieri e Giuseppe Aiazzi?

Rinaldo e Armida in un dipinto del 1630 di Nicolas Poussin
Rinaldo e Armida in un dipinto del 1630 di Nicolas Poussin
In un’edizione milanese del 1812 dell’“Orlando Furioso” viene riportata la “Vita” dell’Ariosto curata da Pitteri, ma alla nota dove questi dà per falso il “Rinaldo ardito” viene aggiunto un asterisco: «Il Baruffaldi altramente opina, che i frammenti scritti di mano dell’Autore e trovati a caso fra carte dimenticate, già spettanti al Sig. D. Giuseppe Lanzoni, appartengano al Poema del “Rinaldo”, facendovisi spesso menzione di lui». Fra i documenti scoperti alla morte (nel 1730) del dottor Lanzoni, ci ricorda l’abate bibliotecario Girolamo Baruffaldi nella sua “Vita di Ludovico Ariosto” (1807), ci sono molti manoscritti ad opera dell’Ariosto, testi incompiuti e frammenti di canti: «il manoscritto del “Rinaldo” fu ritrovato nella sua biblioteca - racconta Angelo Solerti ne “L’archivio della famiglia Ariosto” (1904) - e fu notata giustamente la stranezza del silenzio in proposito del Lanzoni, così liberale nel dare notizie e nel permettere l’uso de’ propri libri».

Nella biografia del 1906 curata dall’americano Edmund Garratt Gardner, “The King of Court Poets”, l’Ariosto viene sollevato dal peso di aver aver scritto un testo immaginario - anzi, immaginato. Lo studioso presenta varie prove che rendono difficile credere che l’Ariosto possa davvero aver scritto quello che oggi chiamiamo “Rinaldo ardito” - titolo scelto unicamente perché il Doni l’ha citato nella sua “Seconda Libraria”! - identificando altri possibili autori, come il fratello del Ludovico o un imitatore ferrarese, e domandandosi infine se non si tratti di una vera e propria truffa.

È stato davvero l’Ariosto a scrivere i canti ritrovati del “Rinaldo ardito”? Oppure - processo non raro in bibliofilia - gli appassionati del drammaturgo, infiammati dalla citazione del Doni, hanno voluto vedere in quei frammenti inediti la materializzazione di un libro solo immaginato? Il Doni ha veramente visto un manoscritto inedito firmato dall’Ariosto o ha supposto che questo esistesse? Difficilmente si potrà rispondere in modo certo e definitivo a queste domande.

In conclusione, il buon Doni si è divertito ad infarcire i suoi elenchi con degli pseudobiblia oppure rimane l’unico testimone di tante rarità librarie? Fu un coscienzioso bibliofilo o un geniale burlone? Forse fu tutto questo, ma se comunque dopo cinquecento anni siamo ancora qui a chiedercelo, vuol dire che egli è in ogni caso un valente rappresentante del grande gioco degli pseudobiblia, dove la realtà è la meno importante delle finzioni.