Salva con nome

Mi chiamo Samuele, ho 15 anni e so chi è stato ad ammazzare mio padre, il maresciallo capo dei Carabinieri Andrea Oldani, di anni 40.

Quella che state ascoltando è la mia voce registrata oggi, 20 agosto, alle ore 22 e 2 minuti, ad un mese, 8 ore e 3 minuti dall’omicidio di papà, avvenuto sotto casa a due passi dal cancello, per mano di… È stata la coltellata alle spalle, con una lama di 20 centimetri circa, a recidere di netto l’aorta. L’arma del delitto non è stata ancora trovata, così come il responsabile dell’assassinio... Fino a questo momento.

Nessuno ha visto nulla. Nessuno ha sentito nulla.

Nessuna traccia, nessuna impronta. Questo è quanto emerge, almeno, dalle indagini del Reparto investigativo. I Carabinieri del RIS non hanno individuato elementi di alcun tipo che potessero metterli sulla pista giusta. In questo caso anche Gil Grissom di CSI avrebbe brancolato nel buio.

Papà è morto nel giro di pochi secondi e non ha sofferto.

Così ci ha detto il capitano Terenzi, incaricato delle indagini. Come se venire a conoscenza di questo particolare bastasse per farci pensare: “Ah, beh, se le cose stanno così, ci sentiamo davvero sollevati…”.

Non sono emersi nomi di persone che potessero avercela con il maresciallo capo Oldani, che lavorava presso il Comando per la Tutela dell’Ambiente, occupandosi prevalentemente di rilievi e mappatura di territori. Aveva a che fare con piante e animali, più che altro. Trovo improbabile che un branco di cervi abbia commissionato ad un killer quadrupede, provvisto di corno modellato a lama di coltellaccio, di mettere a tacere il maresciallo perché prossimo a scoprire un pericoloso clan di animali dedito, chessò, alla distruzione di un bosco a scopo di lucro, magari con la regia di qualche mafioso alle spalle.

Prima di proseguire con l’illustrazione delle prove da me raccolte, desidero dichiarare che sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, mentre quelle fisiche sono seriamente ostacolate da una paralisi che mi ha colpito dalla vita in giù, a causa di un brutto incidente occorso al mare due anni or sono. Mi trovavo in piedi su uno scoglio e qualcuno si avvicinò alle mie spalle, spingendomi e facendomi fare un volo di 6 metri. Erano circa le 8 di sera e me ne stavo lì, tranquillo, a contemplare l’orizzonte. La spiaggia poco lontana era deserta.

Nessuno vide nulla. Nessuno sentì nulla.

Devo ringraziare un signore che passava col gommone se sono ancora vivo.

La botta è stata tremenda e non so come ho fatto a restare a galla, annaspando per aggrapparmi alla nuda roccia, rimanendovi attaccato come una patella, prima stordito e poi sempre più consapevole di non sentire nulla dai fianchi in giù, iniziando quindi a vomitare l’acqua bevuta e a produrre un lamento che col passare dei minuti è diventato come l’urlo di Rocky Balboa quando vince il match più importante della sua vita. Le sue labbra gonfie e impastate di sangue si muovono ed esce quello che pare un rantolo, via via più forte: «Adrianaaaaa…!». Io ho fatto più o meno la stessa cosa, solo che al posto di Adriana, non conoscendone nessuna, mi è uscito: «Mammaaaaa…!».

Non ho altri ricordi, a parte quello di quando sono in piedi sullo scoglio e una mano fredda aderisce tra le mie scapole, spingendo con una forza di origine nervosa.

Era la mano appartenente ad una persona che non si distingue per la forza muscolare e che non ha un fisico possente, almeno questa è stata la mia impressione. Ora che ci penso… Era una mano sola. La bestia non le ha usate entrambe. Chissà perché. Forse spingere con tutte e due le mani significa riconoscersi più determinazione, caricare tutto il corpo come una molla e... pum..., giù con un bel diretto, mentre con una mano sola è come saltellare intorno al pugile avversario e tastare il terreno con qualche pugno.

Fatto sta che la spinta è bastata a produrre il danno che ha prodotto, ma non è stata sufficiente ad eliminarmi. Oddio, sono ancora indeciso se ringraziare o no il responsabile. Da un lato sono qui a parlarvi, ma dall’altro sono rovinato a vita e mi è capitato parecchie volte d’imprecare contro chi mi ha spinto. Poteva essere più preciso, dosare meglio la forza, così mi spaccavo la testa in due e la finivo lì. Invece sono qui, guardo le mie gambe immobili e questo mi fa stare male, soprattutto quando ascolto la mia musica preferita e non posso più tenere il tempo battendo il piede sul pavimento o per strada.

Sono costretto a battere l’anello sul bracciolo della sedia a rotelle. Succede anche quando sono molto nervoso e se sentirete un “tic-tic” ripetuto, durante l’ascolto, sapete di cosa si tratta. La sedia a rotelle è diventata anche il mio strumento a percussione. Si tratta di un modello col telaio in fibra di carbonio, è costosissima e ho appena imparato ad impennare. Ci vado calmo, per ora, e lo faccio quando una musica mi mette addosso una voglia irresistibile di ballare. M’inclino sulle rotelle posteriori, faccio girare la sedia come una trottola, batto le mani, canto, percuoto le parti metalliche con due bacchette di legno. Insomma, è così che mi do una botta di vita… Così e leggendo Dylan Dog, il mio indagatore preferito, quello con tante donne quanti sono i mostri con cui ha a che fare. Beato lui… Per le donne, intendo dire. I suoi mostri m’intrigano, alcuni mi fanno compassione. Si tratta di quelle persone comuni che vanno fuori di testa, possedute da chissà cosa o chi, per trasformarsi in killer che poi si riprendono e cascano dalle nuvole, negando tutto.

L’ispettore Block, poi, lo adoro. Mi piace ancor più di Dylan, perché dà l’idea del pigrone, e poi perché ingoia un antiemetico dietro l’altro, come fa il Dottor House con il Vicodin.

Quanto mi piacerebbe avere qui House per una diagnosi differenziale, ma questa volta non di natura medica! Lo vorrei qui con la sua lavagna e, se possibile, vorrei qui anche il suo capo, Lisa Cuddy che… Posso dirlo?… È uno schianto di donna.

Credo che a House s’illuminerebbero gli occhi, a guardare lo schermo del mio computer in questo preciso istante, con tutte le prove che inchiodano l’assassino di mio padre, così come gongola quando azzecca la diagnosi all’ultimo minuto e salva il paziente. Spesso, però, a lavoro concluso, House è triste. Come me.

 

In questi due anni mi è capitato spesso di avere incubi circa l’istante in cui sono stato spinto nel vuoto. Essi hanno avuto il pregio di farmi svegliare, così che potessi appuntare nel mio taccuino dettagli rilevanti di quella mano che ora ha preso forma. Sono riuscito a ricordare anche la sensazione data dal contatto delle unghie sulla pelle. Non erano lunghe, ma nemmeno corte da non avvertirne la pressione. Una di esse, in particolare, ha lasciato in qualche angolo della mia memoria una traccia sottile come il filo di una ragnatela.

Credo che la mente, in circostanze particolari, come un forte stress o un trauma, attui una serie di compressioni di dati che archivia in un disco fisso, con l’obiettivo di scongiurare la pazzia. Poi, però, si mette in moto come una lavatrice rumorosa. Qualcosa scatta dentro i meandri delle reti neuronali e inizia la centrifuga, con una scossa improvvisa. Appena l’oblò della lavatrice viene aperto, tutto è ingarbugliato, e tirando la manica di una camicia casca a terra un calzino che nemmeno ricordavi di aver messo insieme al resto del bucato. Così inizi a porti una serie di domande, cui ne seguono altre, e scavi, scavi, ritrovandoti con un pugno di radici in mano: altre domande. Allora metti il calzino da una parte e ti auguri che un giorno o l’altro compaia quello mancante.

Sono stati giorni, quelli successivi all’assassinio di mio padre, in cui mi sentivo come quel calzino spaiato, smarrito e ingarbugliato, prigioniero di una matassa inestricabile. Mi svegliavo inzuppato di sudore come dopo una di quelle corse al parco con mia sorella, quando avevo dieci anni e due gambe per fare tutti i passi che volevo.

Quante gare e ruzzoloni, e ogni domenica tutta la famiglia che andava a correre. Mens sana in corpore sano, diceva sempre papà. Ora mi sento il corpo poco sano, a dir la verità, mentre la mente mi sembra rimasta fin troppo lucida. A volte mi spaventa e vorrei si prendesse un po’ di svago, che mi lasciasse in pace, così da concedermi d’invitare la vicina di casa, assai carina, a mangiare una pizza senza farmi troppi problemi. Che noia tutti ’sti ragionamenti che mi fanno fumare il cervello e che mi immobilizzano ancora di più!

Però, buttare via il bambino con l’acqua sporca non serve a nulla. Mi sa che il corpo è molto più saggio di quanto si creda, perché ciò che viene tolto da una parte, spunta da un’altra sotto nuova forma, all’inizio sconosciuta e guardata storto, ma poi, se osservata più da vicino, capace di rivelarsi preziosa, soprattutto nei momenti più difficili.

La mia compensazione è duplice. Sono diventato più simpatico, prima di tutto a me stesso.

Prima ero un musone e non mi si filava nessuno, mentre ora spopolo, soprattutto in Internet, dove ho conosciuto un mare di gente, compresa qualche bella tipa tutto pepe...

Poi c’è la mia parte più seriosa, quella di quando alleno la memoria con esercizi appresi da una specie di guru scoperto grazie ad un gruppo di sciamani online. Si fa chiamare Castanedda, è un signore sardo, di Guspini, che ha fatto numerosi viaggi in Messico, da giovane, bombardandosi di Peyote, Mescalina e altri funghi allucinogeni non ben precisati. Nella mia regione ci fermiamo ai chiodini, ai prataioli e a qualche raro porcino…

Castanedda insegna perfino a visualizzare i sogni, a metterci dentro le mani e a guidarli. Fico, no? Grazie agli esercizi che mi ha insegnato, è emerso il primo ricordo di quell’unghia dal profilo irregolare, come se fosse spezzata. Ecco che dalla mia “centrifuga” è spuntata la sensazione sopita per due anni di una puntura all’altezza della scapola sinistra, cui è seguita la spinta rabbiosa. Dopo averlo sognato, il pizzicore s’è piazzato sulla scapola sotto forma di prurito, tanto da costringermi a ripetute contorsioni sulla sedia a rotelle in cerca di sollievo. Ho dovuto pazientare, tenere duro e disegnare il profilo dell’unghia più volte. Ad un certo punto il pizzicore è scomparso. Castanedda, che mastica pure di fisica quantistica e di roba metafisica, attribuisce tale evento ad un segnale preciso della memoria fissata nelle reti neuronali, che in qualche modo avrebbero ricevuto un nuovo impulso capace di interrompere un meccanismo ripetitivo e noioso, come quel tipo che qualche anno fa cantava sempre «Perchééé lo faaai, disperata ragazza miaaa…», con quella vocina stridula che mi dava i nervi.

Adesso la mano, a meno che spuntino altre novità di rilievo, sembra rispondere fedelmente a quella reale e mi sento un pochino più “pieno”, anche se triste come non mai e col cervello che fuma, come sempre. Comprendo che il disegno della mano non è un granché come prova e che quanto dichiarato fino a questo momento vi sembrerà non avere nulla a che fare con l’omicidio di mio padre. Capisco che sareste legittimati a scambiarmi per un giovane in preda a deliri, perché accecato dal dolore e voglioso di vendetta a tutti i costi.

Ad ogni modo, non sta a me dire se quanto penserete sarà legittimo o meno. Se dovessi mettermi nei vostri panni, o uniformi che dir si voglia, potrei essere tentato di non fare passi azzardati solo perché uno sbarbatello, seppur figlio di un collega, invia un CD contenente dichiarazioni pesanti come macigni alla Stazione dei Carabinieri distante 4.285 passi da casa, per mezzo di un cagnolino, razza barboncino, ammaestrato e guidato da un’Alfa Romeo 159 in scala 1:10 dei Carabinieri, munita di web-cam montata sul tettuccio.

Lì per lì lo prenderei per uno scherzo di cattivo gusto. Immagino il piantone che vede sbucare da dietro l’angolo una macchinina coi lampeggianti e la sirena accesi, seguita da un quadrupede peloso con uno zainetto ben stretto sul dorso.

Mah, speriamo in bene… Speriamo che il plico finisca nelle mani giuste con tutto il contenuto, oltre al CD audio su cui sto registrando la presente dichiarazione.

Segue una lista dettagliata del contenuto del pacco:

- Le mie generalità;

- n. 1 orologio con segnalatore GPS incorporato;

- n. 1 iPod con scritto sopra il numero 3;

- n. 1 Mike Plus, chiamato anche “fagiolino” dalla tribù dei tecno-runner. Il fagiolino si inserisce nell’apposito alloggiamento sotto la suoletta interna delle scarpe da jogging e comunica con l’iPod;

- n. 1 paio di scarpe da corsa numero 38, marca Mike Vomero, di colore grigio, con fotografia dell’impronta sinistra lasciata accanto ad un albero nel giardino di fronte a casa, oltre la strada;

- n. 1 CD contenente un grafico completo di data e ora, salvato anche nel sito Internet dei tecno-runner in cui mi sono registrato il Natale scorso e in cui riverso giornalmente i dati presenti nell’iPod che comunica col fagiolino. Allego anche password e username, così potete controllare coi vostri occhi se dico balle oppure no;

- n. 1 DVD contenente un breve video girato grazie alla web-cam installata sull’Alfa 159. Troverete un fermo immagine decisivo ai fini delle indagini;

- n. 1 DVD contenente video-dichiarazione spontanea del signor Franco Signorelli, il gommista che ha l’officina a 1.428 passi circa dal cancello di casa mia. Franco è appassionato di impronte di qualsiasi tipo e si diverte a fare calchi. Se diventasse un consulente del RIS, sarei il ragazzo su sedia a rotelle più felice del mondo;

- n. 1 e-mail di un tecno-runner e arrampicatore cosentino di nome Gianfranco Mazzuca, al quale sarò grato in eterno per come ha incrociato i dati dell’iPod n. 3 con quelli dell’orologio GPS. Allego i file, contenenti l’esito dell’incrocio dei dati, più data e ora rilevate dal satellite;

- n.1 disegno della mano che mi ha spinto due anni fa, la sinistra, con tanto di unghie tratteggiate, compresa quella spezzata di cui ho parlato prima. Tenete voi il disegno, perché non ce la faccio più a conservarlo nella mia stanza. Ho paura che la mano si animi all’improvviso e mi soffochi in piena notte;

- n. 1 foto del luogo in cui si trova l’arma del delitto. Questo è un vero casino. Come farete a recuperarla? Boh, però ho come il sospetto che, una volta analizzate le prove contenute nel plico consegnatovi dal mio fedele barboncino di nome Groucho, l’assassino canterà… Eccome se canterà.  All’inizio, però, cadrà dalle nuvole. Posso fare una richiesta? Fate in modo che il paracadute non si apra.

Come sapete, vivo in una piccola villetta a schiera, modesta ma confortevole, adeguata alla mia condizione grazie a scivoli, elevatori e telecomandi d’ogni sorta e ad una telecamera interna, installata da me nel garage dove mamma si occupa del suo hobby. L’ho imboscata in un punto sicuro e collegata al mio computer. Così osservo mamma di tanto in tanto e la sento più vicina.

Diciamo che dalla mia stanza vedo tutto e comando tutto ciò che m’interessa. Anche quando mi muovo vedo ciò che mi serve, grazie ad un monitor tipo TomTom agganciato al bracciolo della sedia a rotelle e collegato ad una web-cam direzionata alle mie spalle. Così nessuno mi può spingere senza che non lo veda. Sapete com’è: una volta passi, ma la seconda…

Groucho proviene da un circo messo sotto sequestro dai NAS perché gli animali erano nutriti con carne contaminata, proveniente da una partita di polli allevati e ammalati di aviaria. Dopo le opportune indagini e analisi, la povera creatura è stata consegnata al canile e prelevata subito da mio padre. Questo è stato il suo regalo più bello. Groucho ha un Q.I. che darebbe il lungo a molte persone che conosco. Subito dopo Groucho, è arrivata l’Alfa Romeo 159 in scala 1:10 dei Carabinieri, che il colonnello del Reparto ha consegnato a papà affinché la lanciassi a 70 all’ora in giardino.

Groucho e la 159 sono i miei prodi che mando in avanscoperta. La macchinina è radiocomandata, come sapete. Quello che non sapete è che, grazie ad un elettrauto, amico del gommista Franco, l’ho taroccata. Ebbene sì, lo confesso: ho fatto aumentare la portata del radiocomando e potenziare la batteria dell’auto, che si può allontanare fino a cinque chilometri da casa. Un chilometro sono mille metri, ovvero 100mila centimetri e, presumendo che un mio passo sia lungo 70 centimetri circa, il percorso dell’auto dovrebbe equivalere a circa 7.140 dei miei passi all’andata e altrettanti al ritorno, per un totale di 14.280 passi.

Groucho s’intende perfettamente con l’Alfa. All’inizio restava un po’ stranito quando sentiva la sirena e vedeva fari e lampeggianti accesi. Poi ha imparato che sono segnali di richiamo, laddove il richiamante sono io. Non ho ancora capito se sia la 159 a scortare lui o viceversa, ma va bene così. Ed è pure divertente vedere in azione quella strana coppia.

Allora, cerchiamo di fare il punto.

Ora sapete come mi muovo e come osservo il mondo, almeno quello più vicino a me. Ma dovete sapere che da quando ho perso l’uso delle gambe mi sono preoccupato che mio padre, mia madre e mia sorella Lucia disponessero di un corredo come si deve per andare a correre. Dove ho trovato i soldi per comprare tre orologi GPS, tre iPod, tre paia di scarpe Mike Vomero e tre fagiolini? Li ho vinti al Gratta&Vinci. Ben 70mila euro, in un pomeriggio desolato di novembre.

Quel giorno Franco mi ha voluto portare a tutti i costi in un locale del centro a bere una cioccolata, tanto per fare quattro chiacchiere e uscire un po’. Io non credo nella dea bendata, ma si vede che quel pomeriggio lei non ci vedeva più per via delle continue richieste e così ha pensato di prendere una pausa caffè… nel nostro bar.

Franco insisteva nel voler comprare un “grattino”, come lo chiama lui. L’ho accontentato, e dopo aver grattato sono rimasto senza parole, con l’espressione ebete di quando ho visto per la prima volta Ghost, per la precisione la scena in cui lei modella il vaso, col marito alle spalle che ci mette del suo per distrarla. Quella sì che è roba tosta, ed è così che vorrei qualcuno alle mie spalle. Sarei anche disposto a fare un corso di quelli a fascicoli dal nome improbabile tipo “Creta mon amour” o magari “In forma con l’argilla”… Ma no, questo sa più di rivista per dimagrire e mi fa venire in mente qualche signora ingenua che ingolla un piatto di pappa grigia scambiandola per cibo ipocalorico, per poi chiedersi il perché di tanta stitichezza…

Ma non divaghiamo troppo. Il giorno dopo la vincita ci siamo recati subito nella banca di Franco per riscuotere, dal momento che io sono minorenne.

Com’è naturale che sia tra gentiluomini, gli ho riconosciuto una bella sommetta: 5mila euro tondi tondi. Con parte dei 65mila restanti ho provveduto agli acquisti, sempre grazie a Franco, e mi sono avanzati parecchi soldi, anche dopo aver comprato online un computer con lo schermo gigante, un segnalatore GPS per il collare di Groucho e un cellulare adeguato alla mia pigrizia, uno di quelli che tocchi lo schermo con un solo dito per fare tutto.

Spese di questo genere non passano certo inosservate. Pertanto ho dovuto raccontare in famiglia della vincita, chiarendo bene come quei soldi rappresentassero una sorta di risarcimento sceso dal cielo per il mio incidente, come fossero un gruzzolo che avrei investito con scrupolo per farlo crescere, e che con altrettanto scrupolo avrei utilizzato.

Nessuno ha fiatato.

Nessuno ha provato ad intromettersi fra me e il malloppo.

Da quando sto sulla sedia a rotelle, s’è creato intorno a me una sorta di timore reverenziale. A volte è stucchevole, a volte è proprio quel che ci vuole. Di certo va ben amministrato. Io, non so come, ma ci riesco. E poi aumenta la mia autostima, che è spesso sotto i tacchi, e mi fa sentire rispettato come il Padrino.

 

E adesso facciamo un bel po’ di passi indietro, a quella sera d’estate, quando me ne stavo sullo scoglio a contemplare l’orizzonte. Stavo tentando di alleggerire un po’ la zavorra. Percepivo che qualcosa non andava, che in casa tirava una brutta aria da un po’ troppo tempo per i miei gusti, che il sorriso di mia madre sbiadiva sempre più, per lasciare spazio a monologhi sussurrati e incomprensibili, in cui si rivolgeva a qualcuno, ma non sono mai riuscito a capire chi fosse. Gli dava del tu e pareva rispondere a domande ben precise.

A me capita solo con Groucho, che sembra non faccia domande, ma quando inclina la testa da un lato vuol dire che mi sta chiedendo il perché di qualcosa… Qualcosa che mi vede fare.

«Coraggio Samuele, sei a buon punto. Vai avanti dritto e non ti voltare mai, per nessun motivo al mondo». Le parole appena pronunciate in falsetto, stile Cugini di campagna, sono quelle della mia vocina interiore che mi accompagna da sempre. Dopo l’incidente ha omesso solo il verbo “camminare” e le relative coniugazioni… Credo per delicatezza.

Per tornare ai regali, ho chiesto a Franco di rendere uniche come impronte digitali le suole di ogni paio di scarpe, per un motivo molto semplice: paura di perdere le tracce dei miei congiunti. So bene che sto parlando di persone adulte, e so anche che il motivo per cui chiesi a Franco di incidere un segno sulle suole era sciocco, come temere di essere abbandonato da un momento all’altro.

Sulle suole di mio papà ho fatto incidere la fiamma dei Carabinieri, le lettere TVB su quelle di mia sorella, e un cuoricino su quelle di mia madre, perché lei ne ha uno minuscolo, tatuato sulla caviglia destra. Mamma si occupa di correggere bozze di testi scolastici e nel tempo libero si occupa di… Ne parliamo più avanti.

Dopo aver istruito la famiglia sull’utilizzo degli strumenti tecnologici a corredo dell’abbigliamento, comprensivo di tute estive e invernali, l’ho battezzata “Gli Oldani tecno-runner” e mi sono proposto quale loro personal trainer interattivo.

Il sito Internet che ho scoperto è fantastico. Si tratta di una community immensa, costruita da corridori professionisti e non, di tutte le nazionalità. Pensate, le loro corse, messe insieme, hanno totalizzato 134 miliardi di passi ed equivalgono a 2.170 volte il giro del mondo. In qualche modo, sento che hanno corso anche per me e questo mi emoziona non poco.

Ho imparato a scaricare i dati contenuti negli iPod e quelli negli orologi GPS all’interno del sito dei tecno-runner. Quanto mi sono divertito a fare calcoli, a stilare classifiche da appendere in cucina, con le tabelle indicanti le calorie bruciate da ognuno, stampate in bella copia e appoggiate sui piatti! Insomma, uno spasso, soprattutto nel veder impallidire quella cicciotta di Lucia, che barava sistematicamente sui percorsi.

Poi però è svanito tutto il divertimento, dal giorno dell’uccisione di papà.

Mi trovavo in stanza a navigare in Internet. Avevo pranzato da poco, e prima di tutti, come sempre. Mamma era uscita a correre, e Lucia prima di lei. Groucho seguiva l’Alfa che ormai radiocomandavo ad occhi chiusi, senza stare a guardare la web-cam, ma registrando sempre ciò che essa riprendeva. Disponevo di una telecamera mobile di sorveglianza. La 159 è la mia pattuglia personale e l’ho sempre guidata intorno al piccolo complesso di villette a schiera dove viviamo, un po’ per gioco, un po’ per sentirmi più tranquillo, un po’ per divertirmi a sorprendere papà. Non guardavo le riprese della web-cam perché qualche mese fa ho provvisto l’auto di sensori di prossimità azionati in base a precisi calcoli sulle distanze, in passi, tra una curva e l’altra. Passi di papà. Perciò, una volta messa su strada, anzi, su marciapiede, l’Alfa fa tutto da sola. Groucho la segue per un po’, poi se ne torna a casa per schiacciare un pisolino sul mio letto.

Non ho visto nulla. Non ho sentito nulla.

Ho compreso che era successo qualcosa di grosso quando Groucho è zompato sulla mia scrivania.

Stavo guardando un video su YouTube e avevo le cuffie sulla testa, col volume a palla per ascoltare la mia canzone preferita, che s’intitola Viva la Vida. Con movimenti rapidi delle dita, sono passato alla schermata della web-cam e ho visto mio padre riverso a terra, in una pozza di sangue. Ho urlato, mamma si è precipitata da me e ha guardato lo schermo del computer. Credo si trovasse in garage, intenta a lavorare ad un nuovo progetto. Non l’avevo nemmeno sentita rientrare dalla corsa. Lucia sarebbe arrivata solo dopo.

Mamma non ha voluto che scendessi in strada. Sono rimasto impietrito davanti allo schermo, a guardare il volto bianco di mio padre. Aveva gli occhi sbarrati e guardava in direzione della web-cam.

L’ho salvata, quella immagine, ma non la allego alle prove. Non aggiunge nulla a quanto sapete già. Semmai dovrei allegare il mio strazio di quel momento, ma non esiste ancora una tecnologia in grado di estrarlo e metterlo su chiavetta USB.

Le due settimane successive all’omicidio le conoscete o le potete immaginare: le indagini, i funerali, gente che va e gente che viene, milioni di domande, di telefonate, e poi… il vuoto più vuoto che c’è.

Avevo perso la voglia di fare qualsiasi cosa. Agivo come un automa, sguardo spento. Groucho stava sempre accucciato sulle mie gambe e mi leccava il braccio di tanto in tanto. L’Alfa 159 l’avevo riposta nell’armadio. Non la trovavo più divertente.

Poi, una mattina, quella e-mail.

“Ciao Samuele, come va? Vedo che batti la fiacca. Guarda un po’ gli allegati del 20 luglio. Non vorrai mollarci così, vero?”.

Ho aperto i file: un grafico e una mappa della mia zona, con dettaglio della via in cui abito. Il 20 luglio l’iPod numero 3, grazie al fagiolino conta passi, aveva registrato soltanto 68 metri, che equivalgono a 98 passi di papà. Sulla mappa si vede chiaramente che il tratto di strada percorso andava dal cancello al giardinetto di fronte a casa, oltre la strada, e ritorno. Ho chiamato subito Franco, chiedendogli di fare un giro per me e di portare la macchina fotografica. Il giorno precedente all’omicidio il terreno si era inzuppato a causa di un acquazzone estivo, ma dalla prima mattina del 20 luglio il sole era tornato implacabile, iniziando a far evaporare l’acqua. Solo che erano trascorsi troppi giorni e dopotutto Franco non lavora mica al RIS.

Dopo circa tre ore, mi ha telefonato con uno strano tono di voce.

«Ho fatto qualche scatto, ma devo lavorarci un po’ su. Mi faccio vivo io, stai tranquillo».

Stai tranquillo… Una parola.

Avrei voluto mandare in perlustrazione la 159, ma le batterie erano scariche da giorni. Di uscire non se ne parlava. Non volevo dare nell’occhio e poi il pensiero di passare davanti al cancello... Lasciamo perdere.

Mi sono messo davanti al computer a scandagliare il video registrato dalla web-cam. Rapido passaggio sull’immagine di mio padre steso a terra, un tuffo al cuore e un bel respiro profondo, poi indietro tutta, a partire dalle ore 13.45 in poi del 20 luglio.

Tutto normale, fino a quando la 159 svolta a destra e si dirige verso il cancello. Percorre due metri al massimo, poi lo schermo diventa nero e ci resta per qualche minuto. Da lì in poi le immagini sono quelle di un corpo senza vita… E di piedi, tanti piedi.

Ho catturato la parte di video a partire dalla svolta a destra e l’ho riversata nel programma di montaggio per scandagliare un fotogramma dopo l’altro. Una porzione di immagine prima del nero risultava sfocata, troppo per riuscire da solo a fare qualcosa. Ho inviato subito la traccia ad un mio amico hacker e da quel momento l’attesa è stata spasmodica, caratterizzata da sbalzi d’umore continui. Mi sembrava di stare sulle montagne russe.

A parte qualche visita dei colleghi del defunto maresciallo, ai quali chiedevo notizie sulle indagini senza ottenere alcuna risposta rassicurante, trascorrevo il mio tempo in compagnia di Groucho e della nonna materna, Elsa, che si occupava di noi sopravvissuti e che si era piazzata in camera mia a dormire.

Controllavo la posta elettronica ogni minuto, fino all’esaurimento che ad un certo punto mi ha portato al crollo fisico, grazie anche all’insonnia che ha spadroneggiato dal 20 luglio in poi. Così ho dormito sodo e la notte scorsa ho avuto un incubo. O forse si è trattato di un sogno rivelatore?

Vedo mio padre steso a terra, ha gli occhi sbarrati, ma all’improvviso passa dall’inespressività mortifera ad un’altra, dal sorriso dolce, e con un filo di voce, l’ultimo, mi dice: «Tu sai chi è stato».

Mi sono svegliato di colpo e mi sono ritrovato seduto sul letto a respirare veloce come dopo una corsa. Con la forza delle braccia e l’aiuto di nonna, che a momenti casca a terra, mi sono spostato dal letto alla sedia a rotelle.

Ho acceso il computer e ho trovato due nuove e-mail: una dell’hacker e una di Franco. Ho avuto la tentazione di cancellarle e di spegnere tutto. Poi mi sono fatto coraggio e le ho aperte. In nessuna delle due c’era un testo di accompagnamento, ma solo file allegati.

Ho cliccato su quello inviato da Franco: la foto di ciò che restava dell’impronta di una scarpa sinistra, con evidenziato un punto ben preciso. Ho salvato il file su disco fisso e ho aperto quell’altro, inviato dal mio amico hacker: l’immagine abbastanza nitida e ingrandita di una caviglia, quella destra. Anche in questo caso è stato evidenziato un punto ben preciso, appena sopra il malleolo.

Clic sul tasto destro del mouse.

Scegli opzione Salva con nome.

Che buffo, con il gesto della mia mano sinistra non stavo salvando l’assassino, al contrario lo stavo spingendo giù, all’inferno, col nome giusto: un nome durissimo, per me, da ingoiare.

 

Questo è quanto avevo da dire, cari colleghi del maresciallo capo Oldani.

Per quanto riguarda l’arma del delitto, è stata fusa in una scultura metallica in garage, ne sono certo, ma non ho avuto il coraggio di guardare la registrazione effettuata dalla telecamera nascosta.

Sono risalito al file di quel giorno e l’ho salvato nel disco fisso, su chiave USB e su un altro hard disk portatile ultrasottile che ho nascosto in un luogo sicuro: il portabagagli della 159. Guardate bene e lo troverete. Sta tra il tappetino e il ruotino di scorta.

Sono le ore 24 e 3 minuti del 21 agosto. Tra poco meno di 6 ore, il plico partirà in direzione della vostra Stazione, che dista 4.285 passi dalla casa dove non so ancora per quanto tempo vivrò.

Una gentilezza: riportatemi Groucho e la mia 159 in scala 1:10, per favore. Nella mattinata spero di vederne arrivare una in scala 1:1, davanti al cancello di casa, così che possiate assicurare alla giustizia mia madre, colpevole dell’omicidio del marito, il maresciallo capo Andrea Oldani, di anni 40, e responsabile di tentato “figlicidio”… Si dice così?

Quell’unghia spezzata non me la sono sognata, sapete? Grazie all’aiuto del mio guru, ho visualizzato il giorno successivo all’incidente, quando ero immobilizzato in un letto d’ospedale, con mio padre accanto che piangeva e mia madre che mi accarezzava. Ad un certo punto, lei mi graffiò il cuoio capelluto con la punta del dito mignolo, il sinistro.

L’unghia era spezzata.

Sto parlando di tantissimi passi addietro, tutti quelli che, da quello scoglio in poi, non ho potuto più fare. Invece, il ricordo di altri 98 passi, più recenti, è scolpito nella mia memoria.

È tutto.