Dopo “Acqua storta” e “Pozzoromolo” (entrambi usciti per Meridiano Zero), “Istruzioni per un addio” (Azimut, 2010) è la tua terza opera. Dopo il romanzo, ti sei cimentato nella formula della raccolta di racconti. Gabriel Garcia Marquez considera il racconto la forma più completa – e difficile – di narrazione. Sei d’accordo?

Con tutto il rispetto, assolutamente no. Non sono paragonabili le forme di narrazione. Cosa ci si aspetta da un romanzo? Da un racconto? Da una poesia? A mio umile avviso, occorre partire da queste domande. La poesia, ad esempio, cerca di aprire modalità percettive nel lettore istantaneamente. Il romanzo si prende tutto il tempo (ha lo spazio per farlo) e crea una discesa – o una salita – più a misura medioculturale. Il racconto è centrato – di solito – su un unico avvenimento, c’è un solo fatto che cattura l’attenzione di chi legge. Spesso “Acqua Storta” è stato definito un racconto lungo. Altri, per contro, parlano di romanzo breve. Lungo? Breve? No no, non ci siamo: non è questa la misura.

A proposito di “Istruzioni per un addio” (Azimut, 2010): alcune case editrici, quando sostengono un progetto come una raccolta di racconti, sentono a volte di addentrarsi in un terreno minato. Secondo te perché?

Perché non vendono. I signori editori italiani non hanno ancora trovato un buon modo per renderli appetibili. Ci sono delle eccezioni, ovvio. Se tu sei un lettore di racconti vai a spulciare nel catalogo di Minimum Fax, in assoluto il più fornito in tal senso.

Però la questione, secondo me, non può essere solo liquidata in questo modo. L’abitudine del lettore italiano c’entra parecchio. Il lettore italiano è distratto, ha bisogno di tempo per entrare nella storia, ha bisogno che le cose gli vengano ripetute un paio di volte prima di concentrare la sua attenzione (questa è una responsabilità anche degli editori, che pubblicano roba che sembra soap portata su carta).

Il racconto è un fulmine: per vedere lo spettacolo del suo lampo non puoi guardare verso il cielo solo dopo aver sentito il tuono.

Ora stai lavorando alla sceneggiatura del film di “Acqua storta”. Com’è passare dal romanzo alla sceneggiatura? Quali sono le operazioni più difficili e quelle più divertenti?

Il passaggio non è affatto immediato. È un altro mezzo e ha le sue regole, diverse dalla scrittura. La difficoltà sta nel decidere quali elementi sacrificare della storia iniziale. Alcune sfumature, inevitabilmente, si perdono. Però, la cosa divertente, è che se ne trovano altre. Insieme all’altro sceneggiatore, che è anche il regista del film, abbiamo addirittura cambiato un elemento portante. Mi è piaciuto davvero tanto modificare una cosa già scritta, statica. Come se il mio romanzo avesse acquisito un finale diverso…

Il tema dell’addio (e del ritorno ossessivo) compare anche nel romanzo “Pozzoromolo”. Gioia, la protagonista transessuale rinchiusa in un ospedale psichiatrico giudiziario, è tormentata dai ricordi, cui a volte dice addio e che ritornano implacabili. La fuga – e i suoi tentativi – vengono irrimediabilmente troncati dalle catene cui è condannata. Il passato e il distacco come valenze letterarie.

Il passato è la prova della nostra esistenza, ciò che siamo diventati, ciò che siamo in un preciso momento. Nelle varie epoche di una vita, ripresentificare uno stesso avvenimento restituisce una consapevolezza diversa. Il distacco, l’elaborazione, passa per le nuove esperienze; anche se il fatto ripensato è lo stesso, non cambia nei nostri ricordi, è una foto, le nostre inferenze sono inesorabilmente diverse. E ci accrescono, in ogni caso (il famoso divenirCi heideggeriano, per fare un po’ i presuntuosi).

A pp. 32-33 di “Pozzoromolo” scrivi: «Dicono che le masserie sono sporche ma a Napoli ci sta gente puzzolente, per non parlare poi dei mariuoli e degli scippi che ti fanno se non ti arravogli la borsetta almeno trenta volte intorno al braccio.» Farei un salto dall’opera all’autore: ci provi a spiegare la tua napoletanità?

Eh, come faccio? Avere un DNA intrecciato con i vicoli di Napoli ti dà - mi pare - una marcia in più. È come se ci fossero altri gradi di visione, è come se – paradossalmente – ci fosse qualcosa da vedere oltre i 360 gradi.

In realtà, tutte le volte che la geografia impatta sulla scrittura c’è una marcia in più. Recentemente ho letto molti autori sardi e, sebbene siano diversi l’uno dell’altro, c’è una madre comune, un modo di gestire la frase, un odore delle scritture che si somiglia. Accade anche agli scrittori campani.

Le tue soluzioni narrative sono sempre originali e significative, sia dal punto di vista strutturale che sintattico e lessicale. Come procedi: le studi, ti vengono spontaneamente, ti affidi a un lungo lavoro di revisione?

Vale anche un po’ la risposta data precedentemente. Sono spontanee, e poi c’è il lungo lavoro di riscrittura. Butto via più del 50% di quello che scrivo, un altro 20% lo trasformo in fase di revisione.

Cosa ne pensi dell’ambiente culturale/intellettuale italiano?

Una massa di spocchiosi, tutti sul piedistallo. E non importa quanto uno sia bravo, capace. Fa riferimento la posizione che occupa nella scala culturale. Tranne qualcuno che si mette sul serio in discussione, che affronta questo primo decennio del terzo Millennio con caparbia onestà, il rimanente della creme è tutto un follow dietro l’altro. Quando leggo sui libri fascette di critici blasonati mi viene da andare a casa del ‘fascettaro’ e prenderlo a calcioni sulle gengive. Va bene lo ‘strillo’ (come si dice), ma non confondiamo il marketing con l’onestà intellettuale. Quanto mi piacerebbe fare dei nomi, ma lo trovo poco elegante (solo per questo!).

Cosa ne pensi del patto lettore/scrittore? Lo scrittore ha dei doveri verso qualcuno/qualcosa?

Lo scrittore ha il dovere di scrivere al meglio che può, verso se stesso in primis, poi verso il lettore. A me piace molto parlare con i miei lettori, mi aiutano a migliorare. A volte, parlare con loro, è una vera e propria epifania. Per questo sono molto attivo sul web (blog, social network…).

Ci saluti con una citazione da “Istruzioni per un addio”?

Il tempo ci arrugginisce gli occhi, il tempo accade e ci ossida i dispiaceri, zittisce la voce e persino il silenzio. Questo fa il tempo, passa.