I protagonisti – padre e figlio – e la loro vocazione/condanna alla televisione, sono, insieme al “nero” personaggio che conclude la saga familiare, Silvio, emblemi di una certa Italia dilagante?

Sono gli emblemi di due modelli che hanno caratterizzato le nostre relazioni pubbliche e private: Filippo Spinato, il funzionario Rai, rappresenta il modello “verticale”, fondato sul riconoscimento di una autorità (i padri, i professori, i preti, i leader politici). Era un’Italia pedagogica che ancora credeva nei ”buoni maestri”. Suo figlio Canio, che diventerà il barzellettiere di Berlusconi, incarna invece il modello “orizzontale”, fondato sul reciproco rispecchiamento e su una sorta di “alleanza del consenso”: dobbiamo essere tutti uguali per piacerci a vicenda.

Nella prima parte del libro il lettore è catapultato in una Matera a tratti protonovecentesca, a tratti pasoliniana. Com’è il tuo rapporto con questa terra?

Sono nato in Puglia, e ho sempre avuto rapporti sentimentali molto stretti con i miei luoghi d’origine d’origine, ma, pur essendo a pochi chilometri di distanza, Matera è stata una scoperta relativamente recente. Mi ha colpito profondamente la spiritualità dei Sassi. Sembra ancora di vedere, da quelle grotte che tanto ricordano la Palestina, la croce che Pasolini innalzò per il suo Vangelo. E siccome quella de La Battuta perfetta è, in un certo senso, la storia di due poveri Cricti che sacrificano se stessi a un folle progetto di redenzione, mi è parso giusto iniziarla e concluderla ai piedi di quella croce.

“La battuta perfetta” mette in risalto il bisogno spasmodico di piacere, oggi. Il piacere come trasmissione senza scambi, in cui manca il perno base della comunicazione, ovvero il confronto. Può essere indizio di un ulteriore debolezza della nostra capacità d’ascolto? O è solo un veicolo verso la notorietà?

Di questo bisogno mi interessava la sovrapposizione tra la sua matrice naturale, universale, fragile, che è racchiusa nel cuore di tutti gli individui, spaventati fin dal primo giorno della nostra vita di non essere accettati, di rimanere soli, e quella forma ossessiva di plauso e di consenso che contraddistigue oggi gli italiani, e in particolare il personaggio che da molti anni, volenti o nolenti, ci rappresenta, ovvero Silvio Berlusconi. La ferita narcistica del nostro io collettivo è diventata una malattia cronica. Ma il virus questa malattia riguarda anche chi possiede gli anticorpi necessari a tenerla a bada: finché la sinistra non capirà che il berlusconismo è, nella sua forma molecolare, qualcosa che “ci riguarda” tutti, non sarà possibile nemmeno sviluppare una risposta politica adeguata.

Canio Spinato, personaggio rappresentativo ed eccezionale con l’ossessione di far ridere, scopre fin da piccolo la sua propensione al cabaret. Qual è la differenza tra i diversi stadi del riso: il ridicolo di Canio, l’ironico e il sarcastico di alcuni tuoi toni della narrazione?

La vocazione ridicola di Canio contiene qualcosa di sacrificale. Fin dalla prima volta in cui la sua famiglia lo avvolge in una risata collettiva, egli capisce che far ridere rappresenta nello stesso tempo un potere e una vergogna.

Chi gli sta intorno ride di lui ma ride anche grazie a lui: nell’essere un idiota, Canio è il demiurgo capace di realizzare il miracolo della gioia, dell’allegria, del rito dionisiaco che mette al riparo (seppure in modo effimero, e come tale da rinnovare nevroticamente all’infinito) dalla tragedia del vivere. Come si legge anche nella quarta di copertina, tra ironia, sarcasmo e motto di spirito, Canio non va per il sottile: quello che gli interessa è suscitare questo miracolo.

La televisione è l’oppio dei popoli? C’è un modo per controllare il potere che la televisione esercita su di noi? Se tu fossi nominato ministro della televisione, che provvedimenti prenderesti?

La televisione è diventata la cocaina dei popoli: non addormenta più le coscienze, ma le porta a un livello di eccitazione che rende la gente disposta a sfidare tutte le regole, pur di piacere. Per quanto riguarda i possibili interventi, credo che la parola chiave di questo momento sia “responsabilità”: c’è stata, dagli anni Ottanta in poi, una ubriachezza da de-responsabilizzazione che è diventata davvero molesta.

Cosa pensi della televisione pubblica, ieri? E oggi?

Per collegarsi alla risposta precedente, penso che abdicare completamente alla funzione di servizio pubblico sia stato autolesionistico. Tra il sentirsi gli unici depositari del verbo e rinunciare quasi del tutto a un progetto di sviluppo culturale (nel senso più ampio e nobile del termine) c’è una grande differenza. Anche perché, a ben vedere, non è appellandosi alla presunta liberalità dell’audience che si smette di essere pedagogici: quando si dice che la televesione di oggi è diseducativa si commette un’inesattezza. Tutti i media di massa educano, ovvero conducono verso qualcosa: basta vedere come i modelli di comportamento siano stati costantemente influenzati da quelli televisivi, soprattutto quando questa influenza non era dichiarata.

La tua attività radiofonica e la tua professione ti portano a un contatto costante coi libri. Quanto leggi? Qual è il valore di un libro? Ci fai un esempio pratico?

Leggo parecchio e amo la letteratura come appassionante e spesso divertente fonte di conoscenza: di me, ancora prima che del mondo esterno. In questo senso leggere un romanzo (ma anche vedere un film, o andare a teatro, o visitare una mostra) è un’esperienza irripetibile, perché permette di entrare in contatto con se stessi attraverso il linguaggio della rappresentazione. Le idee che diventano storie, immagini, personaggi: questo è per me il valore di un libro.

Progetti?

La cosa bella della scrittura è proprio quella di poter concepire liberamente un progetto. Naturalmente, però, i progetti non sono tutti uguali e non tutti adatti a noi. Questo è il tempo in cui cerco di capire quale progetto mi rappresenti, in questo momento. Appena lo troverò, se lo troverò, ricomincerò a scrivere.

Ci saluti con una citazione dal romanzo?

Egghia!