Il ribelle. L’avventura della fondazione (2009), di Emma Pomilio

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Perché scrivere un romanzo sulle origini di Roma? Non è l’argomento prediletto degli scrittori e dei registi e non è conosciuto dal grande pubblico.

La parola Roma evoca immediatamente in noi l’idea di grandezza e di potenza, di edifici imponenti scintillanti di marmi, di aquile e porpora, di una città ricca e dominatrice, in cui molti Romani ormai disincantati asserivano di non credere più negli dèi, e gli antichi culti erano fossili sacrali. Ma Roma non è stata sempre così, ci sono voluti molti secoli perché lo diventasse.

La Roma delle origini non conosceva il mattone, era una città di capanne di pali rivestiti di argilla, con il tetto di paglia. Pochi sapevano scrivere, la cultura si tramandava oralmente, il soprannaturale, il sacro, era tanto mescolato alle faccende umane che questi campi non erano nettamente divisi. Tutto era circondato da un alone di sacralità e di mistero. Le istituzioni politiche non erano separate da quelle religiose. Il re era il capo politico e militare della città e il sacerdote del culto cittadino. La ricchezza era rappresentata dal bestiame. Pecunia viene da pecus.

La storia di questi tempi molto lontani si confonde con la leggenda, eppure la Roma dei primi giorni mi ha affascinato quanto la Roma dei Cesari, perché in essa si vedono chiaramente le premesse della futura grandezza. Questo mi ha convinta a scrivere un romanzo sulle origini.

Cicerone afferma che la posizione strategica è la prima ragione della potenza di Roma e che nessun altro posto in Italia avrebbe offerto le stesse possibilità a una città di raggiungere un tale potere sul mondo.

Roma è sorta su un importante crocevia di comunicazioni, vicino al guado sul Tevere, in un luogo favorevole all’instaurarsi di un mercato, di cui tutti i popoli vicini volevano il controllo. Il guado era frequentato da gente di diversa provenienza: Latini, Etruschi, Sabini, Greci, Fenici. Possiamo immaginare le attività che fervevano agli approdi. Certo non concentrazioni di gente come le nostre, ma pensiamo ai Fenici che andavano per mare a vendere i loro vetri e i loro bissi, pensiamo ai Greci con le loro splendide ceramiche. Gli Etruschi lo attraversavano per andare verso la fertile Campania. Dal guado partiva la strada per il trasporto del sale e il Tevere costituiva anche una strada navigabile per traffici interni.

Di certo non saranno mancate al guado sul Tevere rappresentanze di popoli lontani che mandavano esploratori a battere le coste italiane in cerca di buoni approdi e basi per i loro commerci. E pensiamo che gente doveva essere, e di che coraggio, per affrontare i pericoli del mare a quei tempi.

Il ribelle intende mettere in luce l’universalità e la grandezza di Roma già dalla sua fondazione a cui parteciparono popoli diversi, in una feconda mescolanza di lingue e di culture. Racconta la storia della conquista del guado sul Tevere e della fondazione di Roma, la città che prese il controllo sul guado e sui commerci che vi si svolgevano, e subito cominciò a combattere per affermarsi, per difendere la conquista e allargare i suoi confini angusti. Una grande avventura che secondo la tradizione ebbe luogo nell’VIII secolo prima di Cristo, secolo di grande sviluppo dei rapporti internazionali nel Mediterraneo.

Ma la fondazione di Roma è un tema controverso, sul quale già gli intellettuali greci e latini discussero a lungo. Molti studiosi sono convinti che Roma non sia stata fondata, ma si sia formata col tempo. Io per tanti motivi, che non posso esporre qui, ritengo che ci sia stato un atto di fondazione, e ciò che gli stessi Romani ci hanno tramandato sui primi re contenga molte verità. Se il primo re, Romolo, è una figura leggendaria, le sue imprese hanno un fondamento storico.

Per scrivere Il ribelle mi sono servita delle fonti, soprattutto di Livio, Plutarco, Cicerone, Dionigi di Alicarnasso, e degli studi dell’archeologo Andrea Carandini, che sta conducendo da molti anni degli scavi sul Palatino, luogo in cui è stata fondata Roma secondo la tradizione. Lo studioso, interpretando quello che ci hanno tramandato gli antichi alla luce delle scoperte archeologiche, ha ricostruito le varie fasi della fondazione.

Carthago. Annibale contro Scipione l’Africano (2009)

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Roma in fiamme. Nerone, principe di splendore e perdizione (2011), di Franco Forte

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Per quanto riguarda Roma in fiamme e Carthago - quest’ultimo il titolo più venduto sia in rilegato che negli Oscar Bestsellers - posso dirti che sono stati un’esperienza davvero importante, per certi versi molto formativa. Anche uno scrittore professionista, infatti, deve sempre confrontarsi con il mercato, con le proprie attitudini e con il suo editore di riferimento, e questa volta la sfida, guidata da un nome di altissima caratura come Valerio Massimo Manfredi, era davvero difficile: ricreare Roma antica come non era ancora stato fatto, con il massimo di verosimiglianza storica ma imbastendo storie capaci di far appassionare il pubblico e di trascinarlo in un mondo fatto di finzione e di realtà, al punto da non poter più distinguere l’una dall’altra. Personalmente credo di esserci riuscito, e il gradimento del pubblico per questi miei due romanzi me ne dà conferma.

Il mago e l’imperatrice. Il volto nascosto di Messalina (2010), di  

Claudia Salvatori

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Scrivendo romanzi storici mi sono resa conto che non è possibile raccontare di persone del mondo antico come parleremmo noi: intendo noi ragazzotti e ragazzotte del terzo millennio, frantumati e svuotati, privi di valore e di valori, privi di tutte le parole e le idee che una volta erano cose tangibili e vissute, e oggi soltanto gusci abbandonati di crisalidi. Gli antichi avevano probabilmente un sentimento forte della realtà, un senso forte della propria vita e di quella altrui. Bisogna ritornare ai nostri ricordi d’infanzia, quando tutto era vivido, importante ed eterno, per capire e immaginare.

Per Il mago e l’imperatrice avevo a disposizione solo poche righe di Tacito da cui partire: il matrimonio da lei celebrato con Gaio Silio, pubblicamente, essendo ancora in vita suo marito, l’imperatore Claudio. Un simile atto, pubblico e non segreto, mi ha fatto subito venire in mente un tentativo di colpo di stato. Ora, per duemila anni si è sovrapposta (e preferita) una satira denigratoria prolungata in un’infinita commedia erotica italiana, e questo ha trasformato Messalina in una ninfomane demente. Ho cercato di reinventarla, conferendole la dignità che spetta a una donna del mondo antico che ha un ruolo civile e religioso di primo piano all’interno della sua società. Per questo le ho affiancato un mimo: per raccontare il teatro romano, certamente, ma anche per giocare sui rapporti tra reale e immaginario e mostrare come si influenzano a vicenda.

Spartaco. Il gladiatore (2010), di Mauro Marcialis

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È un periodo storico ricco di eventi. Siamo nel 73 a.C., a pochissimi decenni dalla fine della Repubblica. Roma è in fibrillazione, tra i giochi di potere delle oligarchie e i conflitti militari contro le popolazioni straniere, tra le tensioni delle classi sociali meno abbienti e la stramba idea di libertà che si fa strada in centinaia di migliaia di schiavi.

È il periodo in cui, passeggiando al Foro o in qualche strada consolare, possiamo incontrare alcuni dei personaggi più significativi e carismatici dell’intera storia romana: Cicerone, Pompeo, Crasso e un giovane ma già determinato Giulio Cesare.

Ma, appunto, il 73 a.C. segna soprattutto l’apparizione del possente gladiatore Spartaco.

Le sue gesta hanno cavalcato i secoli fino ai nostri giorni e rappresentano ancora, caricate di significati ideologici, mitici e simbolici, l’emblema del riscatto e della ribellione degli oppressi, che tentano di spezzare le catene della propria sventurata condizione per rivendicare i propri diritti e svincolarsi dalla sopraffazione dei governanti. La legittimazione di Spartaco giunge proprio da alcuni autori romani dell’epoca che, attribuendogli lo status di “nemico” della Repubblica, ne ammettono implicitamente le virtù e riconoscono l’autorevolezza delle sue minacce. Impossibile non rimanere affascinati da questo personaggio carismatico e coraggioso che guidò decine di migliaia di ribelli con spirito indomabile.

Rimangono attualissimi alcuni misteri: come ha potuto l’esercito di Spartaco, seppur numeroso ma estremamente eterogeneo nella sua composizione e privo di disciplina e addestramento militare, sconfiggere ripetutamente le milizie romane per così tanto tempo? Dov’è finito il corpo del gladiatore? Perché i ribelli, quando ne hanno avuto l’opportunità, non hanno varcato le Alpi, con la prospettiva di potersi insediare in un luogo meno pericoloso?

Il romanzo si occupa quindi della più grande rivolta servile della storia dell’umanità e, attraverso le vicende dei tre protagonisti, della Roma del tempo (Floro, il valoroso legionario alle prese con gli intimi assilli di un padre ingombrante, che lo costringeranno a lotte personali più ardue di mille battaglie; Claudia, la giovane patrizia che ha il torto di innamorarsi di uno schiavo e di mettere in discussione alcuni dogmi della cultura romana; Decio, altro legionario ingiustamente ridotto a schiavo gladiatore, braccio destro di Spartaco, che seguirà fino alla fine, con l’orgoglio e la lealtà di un vero romano).

C’è anche il tentativo di attualizzare le dinamiche politiche e sociali, considerato che vi sono tantissime analogie col presente. Del resto, quella di Spartaco è appunto “lotta di classe”, e di cosa si parla, soprattutto oggi, in Italia e nel mondo? Questa è la storia di ogni epoca. In estrema sintesi: i ceti meno agiati rivendicano i propri diritti e un miglioramento delle proprie condizioni, mentre le classi dirigenti lottano per mantenere privilegi, ricchezze e status quo.

L’Aquila di sabbia e di ghiaccio (2010), di Massimo Pietroselli

 L’aquila di sabbia e di ghiaccio è un romanzo ambientato nell’impero di Marco Aurelio. Perché la scelta di questo imperatore? Per due motivi. Il primo: Marco Aurelio è poco frequentato dai romanzieri storici; Cesare, Augusto, Caligola, Nerone sono molto più gettonati, probabilmente perché le loro vite, nel bene e nel male, furono bigger than life, come dicono gli americani. Secondo: Marco Aurelio è forse un personaggio più sfuggente dei predecessori citati, ma molto interessante. È un filosofo, ci ha lasciato un libro di riflessioni molto acute, predicava lo stoicismo, il senso del dovere, la pietas, la sobrietà: ma ha passato la vita a combattere. Ha affrontato un tentativo di colpo di stato, ha visto i suoi progetti strategici naufragare, sentiva che il suo erede (Commodo) non sarebbe stato all’altezza del ruolo, forse la moglie gli fu infedele, un amico lo tradì.

Tutto questo viene raccontato nel libro. Che è sostanzialmente una storia di spie: il protagonista è uno speculator, fedelissimo all’imperatore, che dovrà fare i conti con le proprie convinzioni e i propri errori e che si troverà ad affrontare una grave minaccia per i legionari impegnati sul fronte germanico contro i barbari. Proprio perché è una storia di spie, il romanzo si apre e si chiude con omaggi a spy stories del secolo passato: qualcuno ha persino indovinato le citazioni.

Quel che tengo a precisare è che, nonostante il nocciolo del romanzo sia ovviamente di fantasia, la storia si poggia su eventi realmente accaduti, e persino molti dei personaggi minori sono esistiti: infatti, uno degli aspetti più intriganti nello scrivere un romanzo storico sta appunto nel far scaturire naturalmente la storia dalla Storia!

Danubio rosso. L’alba dei barbari (2011), di Alessandro Defilippi

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Quando Sergio Altieri mi propose di collaborare alla serie Il romanzo di Roma, accettai con entusiasmo. Poi, iniziarono i dubbi e le preoccupazioni. Non avevo mai scritto un romanzo storico vero e proprio, sebbene alcuni dei miei libri, come Le perdute tracce degli dei e Angeli fossero ambientati nell’epoca fascista. Qui il problema era davvero un altro. Il fascismo e la sua storia sono rimasti, inevitabilmente, nel nostro immaginario, soprattutto in quelli, come me, i cui genitori avevano vissuto in quegli anni. Quindi esisteva dentro di me un quadro di vita quotidiana che poteva offrire credibilità al tutto. Per Danubio rosso, la faccenda era, inevitabilmente, affatto diversa. Il libro doveva incentrarsi sulla battaglia di Adrianopoli del 378 d.C., quando i Goti, guidati da Fritigerno, sconfissero i legionari dell’imperatore Valente. Quella sconfitta fu il grande spartiacque: dopo, in realtà, l’Impero sopravvisse a se stesso.

Io però non sono uno storico, ma un medico e uno psicoanalista, sebbene la storia sia stata, in passato, tra i miei interessi principali. Per di più, occuparsi dei fatti del tardo Impero implica l’addentrarsi in un groviglio di personaggi e di eventi, di situazioni sociali e di sommovimenti storici tali da far tremare le vene dei polsi a qualsiasi scrittore. Ma, al contempo, la sfida, come si dice oggi, era davvero stimolante. Così iniziai a documentarmi: le Storie di Ammiano Marcellino furono il testo base, poi i libri di Alessandro Barbero [9 agosto 378, Laterza 2005] e Simon MacDowall [Adrianopoli (2001), Osprey-RBA 2010] e molti altri, tra cui i meravigliosi volumi di militaria della Osprey. Mi fu di grande aiuto l’amicizia di Alessandro Barbero, storico e scrittore di vaglia, che mi accompagnò durante la stesura con il suo sapere.

Ma il punto, ancora più della Storia, era la storia dei personaggi. Mi accorsi presto che molti dei temi che mi offriva quel periodo erano legati a cose di cui scrivevo da tempo: il male, il coraggio, la lotta dell’individuo contro il destino, la fedeltà a se stessi, il sacrificio, il senso di una fine imminente. Quest’ultimo, in particolare, era il filo conduttore della vicenda. Le incursioni barbariche, il premere dei Goti di Fritigerno ai confini dell’Impero, il loro desiderio di entrarvi per farne parte, erano così vicini a ciò che viviamo oggi, in questa sorta di tramonto dell’Europa, rispetto ai popoli che ci raggiungono, mescolandosi a noi. E simile all’oggi era, credo, la sensazione che il mondo contemporaneo andasse alla fine, per trasformarsi in un mondo diverso, in cui niente sarebbe stato come prima. Vidi i battelli dei Goti che attraversano il Danubio come quelli che cercano di raggiungere, disperatamente, le nostre coste. E i “barbari” stessi, gli stranieri, erano, come oggi, coloro che portano il nuovo, forse lo scomodo, certamente il diverso da noi.

E poi, non ultimo, potevo scrivere di eroi. Dove l’eroe non è il guerriero invincibile, ma un uomo pieno di dubbi, come Bartraz il sarmata, il protagonista di Danubio rosso, magister scholae palatinae di Valente. Un soldato che difende ciò in cui ha deciso di credere, anche sapendo che ciò probabilmente lo porterà alla catastrofe, e anche vedendo il male e la corruzione che invadono l’Impero. Gli eroi sono tali sempre nonostante: nonostante la paura, nonostante il desiderio di pace, nonostante la voglia di vita. E Batraz, spero, è così. Più simile al Rick Blaine di Casablanca che a John Rambo.

Che dire, quindi? Scrivere Danubio rosso mi ha divertito, commosso, fatto infuriare, fatto soffrire, come ogni lettore dovrebbe poter fare con un libro. Come, credo, dovrebbe poter fare anche ogni scrittore.

Il sole invincibile. Eliogabalo, il regno della libertà (2011), di Claudia Salvatori

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Su Eliogabalo avevo a disposizione moltissimo materiale, e il lavoro non è stato tanto di reinvenzione quanto di reinterpretazione. Sì, ci piace molto l’imperatore romano pazzo con il lampo del serial killer nell’occhio lubrico, come ci piace la femmina imperiale lussuriosa e crudele. Non nego che siano giocattoloni divertenti, ma ho voluto andare controcorrente, seguendo piuttosto Antonin Artaud, cioè in fondo costruire un altro tipo di giocattolone divertente. Il mio Eliogabalo ha scandalizzato, e ne sono rimasta così colpita che penso gli dedicherò prossimamente un lungo articolo sul mio blog. Ovvero... che senso ha scandalizzarsi di Eliogabalo oggi, dopo il ’68, gli anni Settanta, la liberazione sessuale, i figli dei fiori, il femminismo, i diritti dei gay, il pacifismo ecc.? Ecco la domanda.

Il sangue dei fratelli (2011), di Emma Pomilio

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 Il sangue dei fratelli è un romanzo storico e d’avventura, ambientato all’epoca delle guerre civili tra Mario e Silla, uno dei peggiori momenti nella millenaria storia di Roma. Cicerone afferma che fu un’epoca senza onore. I Romani cominciarono a fare politica con il sostegno degli eserciti. I popolari e gli aristocratici si alternarono al governo, e ogni volta il vincitore massacrava gli sconfitti.

Nel romanzo due famiglie, una di popolari e una di aristocratici, che hanno stipulato un’alleanza matrimoniale, tentano di proteggersi reciprocamente nelle varie fasi della guerra e di superare indenni le proscrizioni, con furberia e coraggio, mentre nell’Urbe si alternano a marcire mucchi di cadaveri insepolti di aristocratici o di popolari.

Per me questo è il quarto romanzo. Stavolta avrei voluto come protagonista principale una donna, ma è arduo trovare nell’antichità delle donne le cui vicende si prestino a scrivere un romanzo d’avventura. La vita delle donne si svolgeva al chiuso e la loro qualità più ammirata era il silenzio, il non farsi notare. Quindi il personaggio principale è un uomo, Fausto, ma ci sono comunque delle grandi figure femminili.

Quella che io preferisco è l’anziana domina della famiglia aristocratica, una donna di forte carattere, ritenuta severa e inflessibile, stimata da tutti a Roma. Tra la domina e il protagonista principale Fausto, un piccolo schiavo, si sviluppa un profondo rapporto. È lei che determina il destino di Fausto, mentre è ancora un ragazzino, con la decisione di farlo istruire, dopo avere intuito le sue grandi capacità, la curiosità e l’amore per il sapere.

Il romanzo è ricco di colpi di scena e affronta vari argomenti, ma quello che a me piace particolarmente tra le tante vicende narrate è proprio il legame fra lo schiavo e la donna forte e intelligente che lo scruta.

Il momento del riscatto, quell’unica occasione nella vita, arriverà per Fausto ormai adulto, e sarà l’anziana donna ad aiutarlo e a legittimarlo. Ma lo metterà duramente alla prova. Per conquistarsi il suo posto nell’Urbe Fausto dovrà dimostrarle di possedere coraggio e intelligenza non comuni.

La civiltà romana è stata la più crudele con gli schiavi, ma anche l’unica in cui un dominus poteva liberare uno schiavo e farne un cittadino senza difficoltà. Pensiamo che in Grecia si doveva riunire l’assemblea per accogliere un nuovo cittadino, dunque nei Romani c’era anche generosità nei confronti degli schiavi, non solo crudeltà.

La nobile donna lungimirante rappresenta bene l’apertura mentale della società romana incline a riconoscere le capacità e a dare onore al merito.