«Romanzo satirico pieno di originalità e di erudizione, ma spesso contaminato da osceni equivoci e da un empio cinismo»: così il Dizionario biografico universale di Francesco Predari (1865) commentava l’opera di François Rabelais, quel Gargantua e Pantagruel con cui nel 2009 iniziava questa rubrica. (Sicuramente il minore dei pregi del romanzo!)

               

L’opera voluminosa di inizio Cinquecento - in realtà raccolta di cinque scritti che l’autore dedicò al mondo dei suoi personaggi - permea da subito la cultura europea in ogni suo aspetto, anche quello lessicale: non solo Rabelais sdogana nella lingua francese il termine “enciclopedia” («m’ha ouvert le vray puits et abysme de encyclopedie», Pantagruel, XX) - anche se l’espressione non ha ancora il senso odierno - ma tutt’oggi è usato il deonimo “pantagruelico”, che da metà Ottocento indica «qui mange et boit sans cesse», chi mangia e beve costantemente. (In italiano è però un aggettivo che si lega ad una ricca tavola imbandita, non a chi ad essa vi si serve.)

Perché è questo il segreto di Rabelais: ha scritto un’opera enciclopedica e pantagruelica, dove ogni cosa è spiegata ed elencata in modo esagerato e senza freno. Lo ammette lui stesso - mascherandosi per motivi di censura dietro lo pseudonimo-anagramma di Alcofribas Nasier - quando nel frontespizio così mette in guardia il lettore: «Libro pieno di pantagruelismo».

               

Quando Pantagruel si reca dunque alla prestigiosa università parigina e si lascia ammaliare dalla Libreria di San Vittore (Pantagruel, capitolo VII), il Rabelais non può far altro che lasciarsi andare ad un pantagruelico, enciclopedico e soprattutto farlocco elenco di libri impossibili, di libri verissimi che si fondono con titoli paradossali. Quattrocento anni prima che nascesse la parola, l’autore francese diede vita al grande gioco degli pseudobiblia: finora non si è riuscito a trovare un testo anteriore che giocasse con i titoli dei libri e prendesse in giro autori affibbiando loro opere oscene (come il celeberrimo “De modo cacandi” o l’“Ars honeste petandi in societate”) per di più stampate a Tubinga, culla della cristianità!

Il gigante Gargantua visto da Gustave Doré
Il gigante Gargantua visto da Gustave Doré
Era da poco che la stampa a caratteri mobili aveva dato vita ad una delle più grandi rivoluzioni della cultura umana (la più sottostimata, secondo la celebre Elizabeth L. Eisenstein). La possibilità di stampare più libri che nel passato stava incrinando il senso di innato rispetto (quasi divino) verso l’oggetto-libro, tanto che ora un Rabelais poteva permettersi di giocarci e di fare con loro mille scherzi e tiri mancini, seguendo la massima dei Thelemiti: «Fa’ ciò che vuoi» (Gargantua, LVII).

              

La Newton Compton porta in libreria il Gargantua e Pantagruel nella collana I Mammut (n. 104, ISBN 9788854136441), con la traduzione di Emanuele Trevi. Per l’occasione abbiamo chiesto un commento sull’opera di Rabelais ad un grande storico medievista, Alessandro Barbero (il cui romanzo Gli occhi di Venezia è in questi giorni in uscita economica per Mondadori, e il cui monumentale saggio Lepanto è saldo nelle classifiche della Laterza), che sin da ragazzo nutre una grande passione per i nostri due giganti buoni.

             

Cos’ha significato per lei la lettura del “Gargantua e Pantagruele”?

È stata un’esperienza decisiva. L’ho letto intorno ai vent’anni, e mi ha fatto capire l’incredibile libertà che c’è nello scrivere: mi ha fatto toccar con mano che uno scrittore può davvero fare quello che vuole, sovvertire tutte le regole, tutte le convenzioni. Leggere Gargantua è un’esperienza paragonabile, credo, alla droga: ti fa vedere il mondo da punti di vista che non avresti mai immaginato.

               

È ancora possibile oggi, nel 2012, che un ragazzo si appassioni alla potenza evocativa del testo di Rabelais?

Ma certamente, dipende da che ragazzo! Voglio dire che l’effetto che questo libro ha fatto a me, non lo fa mica automaticamente a tutti, né allora né adesso. Ci sono lettori di Rabelais, e c’è una vasta umanità che non l’ha letto e non avrebbe nemmeno voglia di leggerlo. Ma se è dal XVI secolo che questo libro fa vibrare qualcosa nell’anima dei suoi lettori, non è certo il cambiamento che si è verificato dal 1980 al 2012 che può mettere fine a questa magia.

                

Come storico si è mai trovato di fronte ad una fonte che citasse un elenco di libri incredibili come quelli della Libreria di San Vittore? Nel caso, come reagirebbe?

Alessandro Barbero
Alessandro Barbero
Che strana domanda! Ma sa, anche Gargantua a suo modo è una fonte, una fonte straordinaria per capire la cultura del Cinquecento. Se invece un elenco del genere lo trovassi, che so, nell’inventario post-mortem di una biblioteca, be’, mi gratterei la testa a lungo...

              

Come romanziere le è mai venuta voglia di creare una “versione moderna” dell’opera di Rabelais?

Diciamo che mi piacerebbe immensamente essere capace di scrivere con la stessa vitalità, scorrettezza, gioia; di creare personaggi altrettanto cinici e folli, trame altrettanto scombiccherate, ironie altrettanto fulminanti...

             

Non ci resta che chiudere invitando chiunque anche solo a sfogliare un’opera incontenibile e soprattutto pantagruelica, che per prima dà il via al gioco degli pseudobiblia così motivando il fatto che ci si dedichi alla lettura «di libri pantagruelici, non già per passare il tempo in allegria, bensì per nuocere malignamente a qualcuno, inquisiculando, alamanacculando, torticollando, culeggiando, coglionettando e diaboliculando, cioè calunniando.» (Traduzione di Augusto Frassineti, Rizzoli 1984)