Giocare al giornalista in un angolo provincia oppresso non dalla criminalità organizzata ma dalla noia significa rischiare al massimo una querela. E mi va bene. Il mondo voglio vederlo solo da lontano.

La mattina faccio un giro fisso. Carabinieri, polizia, ospedale, ufficio nascite e morti del Comune e tribunale. Raccolgo le notizie e siamo a mezzogiorno. Pranzo in una trattoria e vado in redazione. Qui trasformo le veline degli arresti, gli aggiornamenti anagrafici e le sentenze del tribunale in articoli lunghi e noiosi. Quelli del posto usano il giornale per spettegolare, quindi non risparmio i dettagli.

Alle cinque arriva il direttore, grasso, calvo e porco. Non abbastanza porco per le ragazzine. Così ripiega sui politici. Li corteggia da un ufficio all’altro. Ascolta le loro confidenze e butta giù editoriali in cui li mette l’uno contro l’altro. Vince chi passa più soldi al giornale. Alle sette, impaginazione e stampa. Poi la libera uscita.

La sera non c’è niente di meglio che passeggiare sul corso fino all’ora di cena. Dopodiché ci si può imboscare in qualche locale per adolescenti sperando che gli adolescenti veri non ti ridano dietro.

Era maggio. Lo è ancora, ma i dieci giorni passati nel frattempo mi stanno formando nella testa uno smottamento verso i verbi al passato. Un passato che resta al sicuro prima di quello che mi è successo, e non si può più raggiungerlo di nuovo.

La sera dell’inizio camminavo sul corso evitando di fermarmi con i soliti che credevano di essere miei amici solo per aver annusato lo stesso odore di salsa spandersi dai bassi le migliaia di domeniche mattina da cui erano scandite le nostre autobiografie.

- A caccia, eh? - mi fece qualcuno. Sottinteso: di donne.

No. Avevo semplicemente voglia di ritrovare le cose come sempre, senza variazioni allarmanti.

Una mano mi si infilò decisa sotto il braccio e mi voltai.

- Lei è in arresto?

- L’accusa?

- Spreco di tempo e gioventù.

Era il commissario. In lui i miei anni aumentavano di almeno un terzo. Calvizie, ventre e rughe di chi aveva accettato di crescere. Eravamo stati compagni di scuola, al liceo, e da quando l’avevano trasferito qui ci si vedeva spesso.

- Arresti dell’ultima ora? - Non sapevo resistere alla tentazione di carpirgli chicche di cronaca nera.

- Novità enne enne - fece, per nulla sconfortato. Dal suo punto di vista, ogni notizia in meno era un mancato guaio. Anche per me. Preferivo la cronaca spicciola.

- Vieni. C’è una mostra - mi disse. Il commissario dipingeva, e anche bene. Risvolto comprensibile di una professione che dava molte possibilità di cogliere insolite visioni dell’esistenza. Il commissario voleva andare oltre ciò che dell’umana natura rivelavano le foto segnaletiche.

La galleria d’arte era fuori posto sul corso, incuneata fra negozi di abbigliamento che scandivano le stagioni col variare dei capi esposti. Una saletta lunga e un po’ angusta, che veniva utilizzata anche per aste di falsi tappeti persiani.

Vado volentieri alle mostre. La pittura mi piace, in un quadro è tutto sotto controllo, non può succedere niente più di quello che ha deciso l’artista. Specialmente, le cose se ne stanno là, ben separate da chi le guarda e confinate dentro le cornici: paesaggi, nature morte e incubi astratti. Unico inconveniente, la sovrappopolazione di pittori che si ritengono dei Picasso e sono soltanto imbrattatele. Meno male che alle inaugurazioni c’è il rinfresco. Si beve, con assaggini vari per accompagnare. Mentre mi ingozzo, distribuisco sorrisi e adulazioni al presuntuoso che espone e il giorno dopo gli faccio trovare in terza (abbiamo una terza pagina, come diretta conseguenza di quella sovrappopolazione artistica) un pezzo che invariabilmente comincia così: “Grande successo di pubblico all’inaugurazione della mostra di...” Una volta, una volta sola, ho usato la parola “vernice”, e l’interessato si è offeso a morte: - Chiamare vernice la mia pittura!

Il commissario, diplomaticamente, non aveva mai esposto da quando era stato trasferito in città.

I tavoli imbanditi c’erano, nella galleria, ma niente pubblico. Solo una donna.

Ci venne incontro e disse: - Prego.

Avevo un amico filodrammatico che prima di finire commercialista ricco e felice sosteneva sempre che in scena l’attore deve “prendere la luce”. Lei lo aveva fatto per caso muovendosi verso di noi. Il suo volto aveva intercettato il fascio di un faretto puntato su un terzetto di quadri appesi. Come risultato, mi accorsi della sua bellezza, distante all’infinito dal meglio che si può trovare da queste parti.