Seguendo l’etimologia ellenica della parola “verità”, (in greco aletheia), si può osservare come questa non sia concepita come semplice dato statico, che si conclude nel momento della sua realizzazione, ma come azione in perpetuo movimento, dinamica, con la quale viene confutato l’errore e riconosciuto il falso. Attraverso questo processo l’essere può rivelarsi appieno, e continuare a farlo successivamente, realizzando così il concetto stesso del termine in questione. L’opera prima di Ben Affleck, Gone Baby Gone, rappresenta probabilmente ciò che più si avvicina a questa definizione, certamente desueta, della verità, termine ormai abusato, divenuto troppo comune, e, nella sua normalità, privato della sua reale essenza.

La trama di questo film, afferente alla categoria neo-noir, si rivela in grado di destare interesse, beffando e sorprendendo lo spettatore dall’inizio alla fine. In breve, tutto si svolge a Boston (cittadina che nell’ultimo decennio pare essere divenuta l’ambiente ideale per viscerali pellicole noir, basti pensare a Mystic River), dove Patrick Kenzie e la sua compagna Angie Gennaro svolgono il non facile mestiere di detectives privati. Scompare una bambina, figlia tra l’altro di una cocainomane coinvolta in giri ben più grandi di lei, ed i due investigatori vengono assunti dagli zii di questa, convinti che possano svolgere le indagini in una maniera più informale e profonda della polizia. Il resto, che ovviamente sarebbe futile svelare in questa sede, è un continuo susseguirsi di colpi di scena, ma tutt’altro che repentini, lenti piuttosto, torbidi, un’inarrestabile onda emotiva in grado di demolire ogni preconcetto, fino ad arrivare alla conclusione, inaspettata, che suscita un insolvibile dubbio: fino a che punto la verità riesce a conciliarsi con il concetto di giustizia?

Fra gli attori, meritano certamente menzione nomi noti del cinema internazionale quali Ed Harris e Morgan Freeman, ma forse è proprio Casey Affleck, fratello del regista a suscitare maggior interesse: difatti quando un attore riesce a creare un personaggio in grado di “reggere”, di preservare la sua identità all’interno di diversi film, senza tuttavia risultare mai fuori luogo, allora credo che questi meriti davvero una degna considerazione. Il personaggio di Patrick Kenzie, bostoniano del XXI° secolo, non differisce difatti molto dalla prova offerta da Casey A. quando si cala nei panni di Robert Ford in The Assassination of Jassie James by the Coward Robert Ford, monumentale western con Brad Pitt uscito nel 2006 ed ambientato in un’ottocentesca America, diversissimo dunque per tipologia di film ed ambientazione da Gone Baby Gone. Anzi, Casey è praticamente, quanto ad atteggiamenti e modo di esprimersi, identico nelle due pellicole (con le dovute differenze per quanto riguarda il ruolo) ed in grado di ricrearsi uno spazio all’interno della trama che gli permette, modificando alcuni lati, di restare sempre lo stesso, non risultando mai monotono e scontato. Casey Affleck è dunque riuscito nel difficilissimo ruolo di creare un personaggio particolare, intrigante e spesso misterioso, uno “strong character” in grado di attraversare secoli e ambienti diversi, pur rimanendo se stesso, divenendo un virtuale viaggiatore del tempo cinematografico.

Tornando al dubbio che suscita la conclusione del film in questione, e cioè quanto la verità possa conciliarsi con il concetto di giustizia, fino a che punto questi due elementi possano coesistere, questa è ovviamente una domanda alla quale è impossibile dare un’univoca risposta.

E’ dentro di noi difatti che questi due astratti e personali concetti trovano il loro senso, la loro identità, ed è dentro di noi che spesso uno dei due soccombe, lasciando un senso di vuoto, un’insondabile, inconsolabile amarezza.

Forse, se non una risposta, è possibile trovare però una riflessione, un nuovo punto di vista sull’argomento, nel monologo posto all’inizio della pellicola. Il film difatti inizia con una voce fuori campo, un’evanescente presenza posta sullo sfondo di uno scenario in grado di mostrare assieme, assurdamente e genialmente, sia la vita di un quartiere più simile ad un paese che ad un sobborgo, sia l’anonima periferia squallida statunitense. Una presenza invisibile (anche se è facile riconoscere la voce del protagonista) che riflette su quanto quelle persone che noi non scegliamo, ma con le quali siamo costrette a confrontarci costantemente nelle nostre vite (genitori, vicini di casa, fino a quelle persone delle quali abbiamo una conoscenza relativamente sommaria), esercitino una profonda influenza sulla nostra identità, rendendoci poi quello che siamo.

La domanda, insita nella riflessione, resta aperta, anche se la risposta è scontata.

Fonti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Verit%C3%A0#L.27etimologia_greca