Si è tenuta lo scorso anno al Museo di Roma in Trastevere, dal 10 Febbraio al 2 Aprile, la mostra organizzata dall’Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma.

L’evento ripercorre i maggiori fatti di cronaca nera accaduti in Italia, fra gli anni quaranta e novanta, allo scopo di ricostruire la società dell’epoca, gli usi e i costumi degli italiani e, allo stesso tempo, evidenziare l’impatto che i mezzi di comunicazione moderni, come la radio e i primi canali tv trasmessi in bianco e nero, ebbero sulla popolazione.

E’ fra i nomi di Giovanni Fernaroli, Arnaldo Graziosi e il più recente Simonetta Cesaroni, personaggi coinvolti nei fatti di cronaca sopra menzionati, che spicca, contornata da immagini e documenti risalenti a quegli anni, la tragica vicenda di Wilma Montesi.

La famosa storia della giovane di Ostia solleva un polverone tale da raggiungere e appassionare la scrittrice d’oltre oceano Karen Pinkus, docente all’Università della Southern California, che nel suo saggio, The Montesi Scandal (The University Chicago Press), propone un singolare schema di comparazione tra il caso Montesi e il film di Federico Fellini La Dolce Vita, sostenuto da numerosi colpi di scena, dal moltiplicarsi dei testimoni, attendibili o meno, ma di certo intenzionati a sfruttare l’occasione per far parlare di se, e la messa in luce di loschi raggiri politici.

 

Wilma Montesi, ventenne, figlia di un falegname e promessa sposa ad un poliziotto, vive con la sua famiglia nelle case popolari di Via Tagliamento nel quartiere Trieste di Roma.

Uscita di casa nel tardo pomeriggio di due giorni prima, il suo cadavere viene ritrovato supino sulla spiaggia di Torvaianca la mattina dell’11 Aprile 1953 da un giovane manovale, Fortunato Bettini.

Indossa solamente una sottoveste rammendata, mentre la borsa, la gonna gialla, le scarpe, le calze e il reggicalze sembrano spariti nel nulla. Infastidita, la madre della vittima, assicura che la ragazza per nessuna ragione si sarebbe mai levata il reggicalze di sua spontanea volontà.

Se lo allacciava ai fianchi, sopra le mutandine. Mi pare strano che se lo sia tolto e non so dare una spiegazione della mancanza di questo indumento. Ho un sospetto, anzi, ho pensato che ci sarebbe una sola interpretazione: che Wilma sia stata avvicinata da qualche malintenzionato e sia svenuta per lo spavento. Di ciò avrebbe approfittato l’aggressore togliendole l’indumento, forse per violentarla.[…] ”.

Accantonando, ma non escludendo, la colorita versione del genitore, la prima ipotesi formulata dagli inquirenti è il suicidio. La seconda, basata sulle dichiarazioni di Wanda Montesi, sorella di Wilma, è l’incidente. Wilma, infatti, affetta da una forma di eczema ai piedi, si sarebbe recata in riva al mare per un pediluvio curativo e lì, in seguito ad un malore, sarebbe poi morta. 

Lo scandalo scoppia in concomitanza alla pubblicazione di un articolo comparso sul settimanale “Attualità”, diretto da Silvano Muto, in cui si afferma che la ragazza si è sentita male durante un’orgia di sesso e alcool avvenuta a Capocotta, nella riserva di caccia del marchese democristiano Ugo Montagna presente alla festa insieme a Piero Piccioni, figlio musicista del Ministro degli Esteri e favorito successore di Alcide De Gasperi.

Spaventati e in preda al panico i complici trasportano e abbandonano il corpo morente di Wilma sulla battigia.

Muto viene denunciato per calunnia e “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” anche se nel “rapporto riservato” stilato dai carabinieri si legge che Ugo Montagna è “uso a dare convegno a donne di dubbia moralità allo scopo di soddisfare i piaceri ed i vizi di tante personalità del mondo politico”.

Muto, allora, inizialmente intimorito, ritratta l’articolo e ne riconferma ogni singola parola in un secondo momento.

Da questo momento in poi l’Italia si appassiona all’”Affare Montesi”, indaga, sospetta, formula congetture e trae conclusioni. Wilma viene dimenticata e i veri protagonisti diventano gli intrighi politici.

Al processo a suo carico, Muto, in sua difesa, porta la testimonianza di due donne, l’aspirante attrice Adriana Bisacca e Anna Maria Caglio, soprannominata “Il cigno nero” per il suo collo lungo e l’abitudine a vestirsi di nero. Ex amante di Ugo Montagna, la donna accusa Piccioni di omicidio e ribadisce l’attendibilità dello scritto di Silvano e delle sue affermazioni.

L’avvocato difensore, invece, è rappresentato dal comunista Giuseppe Sotgiu, presidente della provincia di Roma e coniatore del termine “capocottari” ad indicare gli habituè alle orge di Capocotta.

Altro punto a favore dell’indiziato sono i divergenti esiti emersi dalle perizie sul cadavere della Montesi, la cui intimità viene pubblicamente recisa.

Il 2 settembre 1954 i medici legali rivelano che “ il cadavere non presenta alcuna lesione di origine vitale. Risulta altresì che l’imene, di forma anulare, è del tutto integro e così pure la regione anale.”

Un mese più tardi l’ “Unità” riporta la versione del professor Pellegrini e con essa la conferma degli abusi sessuali subiti da Wilma.

la sabbia trovata nella vagina non può essere altro che opera di un vizioso, poiché le onde del mare, anche se violente, per la posizione dei genitali esterni che sono protetti anteriormente e posteriormente, non possono immettere in vagina della sabbia, e ancor meno in quantità così cospicua da intasare la vagina stessa.”

Molto simile ad una pantomima è l’accertamento riguardo ad una possibile predisposizione genetica dell’eczema alle caviglie e la richiesta di un esame ginecologico a cui Wanda viene sottoposta per appurarne la verginità ed escludere un suo probabile coinvolgimento agli incontri della sorella.

 

La prima sentenza contro la Caglio e Silvano Muto avviene nel 1954 e dimostra, senza margine d’errore, la reale esistenza di complicati retro scena politici ai danni di alcuni influenti democristiani quali Mario Scelba e Attilio Piccioni.

Il 19 Settembre 1954  Piccioni confisca il passaporto al figlio e annuncia le sue dimissioni dalla carica di Ministro. Due giorni dopo, lo stesso Piccioni, viene arrestato con l’accusa di concorso in omicidio colposo e uso di stupefacenti. Qualche ora più tardi Ugo Montagna si costituisce e l’ex questore romano, Saverio Polito, riceve un mandato di comparizione colpevole di aver sviato le indagini e desideroso di voler archiviare il caso Montesi come semplice incidente “durante un pediluvio in acqua salata”.

Il 15 Ottobre di quell’anno il trio è di nuovo in libertà e rinviato a giudizio.

A Venezia, invece, la vera protagonista del processo è  la Caglio che, sicura nelle sue dichiarazioni, conquista la conveniente attenzione di cronisti e fotografi.

Gli imputati vengono assolti il 27 Maggio 1957. Solo Silvano Muto e Anna Maria Caglio sono condannati. Due anni di carcere per il giornalista e due anni e sei mesi per la donna.

Il primo, vero, giallo all’italiana acclamato dall’opinione pubblica e conteso dalle testate giornalistiche; un altro, l’ennesimo, crimine mal celato da uomini maldestri in corsa per la conquista del mondo, è la sentenza oggi, a più di cinquant’anni di distanza.