Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Le idee le raccolgo un po’ dappertutto, da una frase udita per strada o nel mio bar preferito, a una pagina di fumetti, a una scena di film, a un manifesto, e soprattutto al ricordo di persone e situazioni incontrate nel corso degli anni. Gran parte dei miei personaggi sono ritratti nascosti di amici e soprattutto amiche reali, talvolta con il loro stesso nome. In quest’ultimo romanzo, “La Tempesta di Luce” metà dei personaggi sono calchi di esseri reali, che circolano tuttora nel mondo. Per scrivere invece il mio studio, dove l’Olivetti originaria è stata sostituita via via da Commodore, Apple, HP ecc. Ma qui parliamo dei luoghi fisici, mentalmente invece mi trasferisco ogni volta nei luoghi e nei tempi della narrazione, parlo con i personaggi e li faccio parlare, mi infurio o commuovo con loro, me ne innamoro e alla fine, tornato alla vita reale, vivo un periodo di down come postumi di un’ubriacatura. In attesa di ricaricare le batterie fino alla prossima avventura.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

In genere io parto dall’immaginare il crimine, e delineo poi un tipo criminale che sia coerente con il genere di delitto che ho immaginato. A parte rari casi rifuggo dal crimine “stradale”, quello che puoi trovare nelle pagine di cronaca nera, né provo interesse per il mondo del crimine organizzato. I miei farabutti sono in genere persone distinte e di buona cultura, spesso donne non prive di fascino, talvolta paranoici ma sempre comunque personaggi degni di attenzione. Ugualmente per le vittime, mi sforzo di cogliere sempre una segreta affinità tra esse e i loro carnefici, in omaggio alla tesi che ogni vittima in qualche forma si sceglie il proprio assassino, e l’assassinio è la somma finale di una serie di scelte necessarie che conducono le strade della vittima e quella dell’assassinio a incontrarsi in un crocicchio ineluttabile.

Qual é il tuo modus operandi?

Io sono affezionato a uno schema, una metafora ossessiva per dirla con Mauron, che finisco sempre per adottare: quello che conta è il movente che avvia il dipanarsi della storia. Movente che deve essere inatteso, sorprendente, fuori dagli schemi ordinari del trittico usuale corna, eredità contesa, soldi. Notizie come quella del russo che ha sparato all’amico per una disputa su Kant sono quelle che mi mandano in estasi, e che meriterebbero senz’altro di farsi racconto. Insomma dovendoci passare insieme diverse settimane e mesi, voglio intorno personaggi fantasiosi che non mi annoino con le loro banali controversie di condominio, ma al contrario mi intrattengano con argomenti bizzarri, sofismi, cortine fumogene, solo penetrando le quali poi il protagonista e con lui il lettore arrivano alla fine a dipanare la matassa. Scoperto appunto il movente, la successiva identificazione del colpevole non è poi che un esercizio di logica. Esercizio svolto sempre da un personaggio lontano dall’ufficialità delle forze dell’ordine o della magistratura, in una autonomia così perfetta da arrivare in qualche caso anche a lasciar andare il colpevole, se in qualche modo meritevole.

Chi sono i tuoi complici? Avanti, parla!

Mah, se intendi gli aiuti all’opera, direi anzitutto il caffè, di cui consumo quantità industriali. E poi le playlist di Youtube, che faccio partire in sottofondo con catene di canzoni, marcette, arie legate la periodo di cui sto scrivendo, talvolta un solo brano ripetuto in loop a formare una sorta di rumore bianco che aiuta la concentrazione. E negli intervalli anche robuste dosi di fiction e film surreali, a sfondo esoterico, orrorifici, per mantenere il pensiero scollegato per quanto possibile dal chiacchiericcio quotidiano ed essere pronto ad affrontare la tappa successiva del lavoro.

Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici?

Semplici e diretti. Sono lieto degli apprezzamenti e non mi irrito delle critiche. Sono grato a tutti, per il grande prezzo che chiedo loro. Che non è il costo del libro, ma il valore inestimabile del tempo che hanno dedicato alla lettura, e di cui io mi sono impadronito sottraendolo alle loro vite. Per questo mi sento in obbligo sempre di cercare di dare qualcosa in cambio: il mio ideale è quello di prendere per mano il lettore, portarmelo dietro in una passeggiata nel giardino incantato per infine riaccompagnarlo in un luogo diverso da quello di partenza, con nella mente il ricordo di qualcosa del cammino. Così come io da ragazzino mi imbarcai sull’Hispaniola alla ricerca dell’isola del tesoro, e alla fine dell’avventura, tornato sul molo, avevo con me qualcosa di indimenticabile, il desiderio di trovare anch’io la mia isola del tesoro che poi mi ha accompagnato sempre. Naturalmente non sempre ci riesco, e non con tutti, ma quando avviene è un’emozione che ripaga lo sforzo della scrittura. Che non è affatto lieve, come potrebbe sembrare, poche cose essendo pesanti come la penna.

Che messaggio vuoi dare con le tue opere?

Non un messaggio, ma una difesa strenua del racconto fantastico e di avventura (tutti i miei gialli sono in definitiva avventure in cui tra l’altro capita anche qualche delitto) e con loro dei personaggi che Hugo Pratt definiva “gentiluomini di ventura”, sia che agiscano in tempi lontani sia che si tratti di avventurieri del quotidiano. Cerco di proseguire una tradizione nobile, da Stevenson a Salgari, a London. E ci metto anche Conrad, e perfino Lovecraft e Howard, Le mille e una notte, Nietzsche e insomma alla fine tutti quelli che scrivendo hanno aggiunto qualcosa al mondo, non limitandosi a descriverlo. Perché credo cha alla fine sia questa la missione dello scrittore, aggiungere al mondo qualcosa che la natura non aveva previsto, una storia che nessuno ha ancora raccontato, un dolore, una gioia, un amore che forse avremmo voluto vivere, e che improvvisamente scopriamo nelle pagine di un libro, e di lì diventano nostre. Alla fine lo scrittore è solo il custode di tutto il non ancora detto del mondo.