Con l’inizio degli anni ’40, il Ciclo di Cthulhu e i vari racconti esoterici (visti nei precedenti numeri di questa rubrica) perdono il monopolio della produzione “pseudobiblica”. Anche se il mondo lo conoscerà solo in seguito, a Buenos Aires il poeta, saggista e scrittore Jorge Luis Borges (1899-1986) incanta l’Argentina con i suoi racconti brevi, impostati come saggi ma che hanno tutta la poesia e la magia della letteratura fantastica.

Va premesso che identificare gli pseudobiblia nell’opera borgesiana è impresa a dir poco ardua, visto che l’autore amava nascondersi dietro falsi nomi, attribuendo ad altri proprie creazioni o addirittura firmando con “autore anonimo” suoi aforismi! Interrogato sui suoi lavori, fingeva di non averne memoria, di non amarli o addirittura di non averli mai scritti: ne sa qualcosa lo studente di Oxford che, nel 1971, chiese a Borges notizie di una sua raccolta di saggi e si sentì rispondere dall’autore: «Quel libro non esiste!» (per fortuna invece quel libro esiste, ed è arrivato in Italia nel 2007 con il titolo “La misura della mia speranza”) Negli ultimi anni della sua vita Borges rilasciò moltissime interviste dove - per la fortuna e la gioia degli appassionati - rivelò molti dei suoi trucchi, dei suoi pseudobiblia e dei suoi pseudoepigrapha. Forse non aveva più memoria dell’averli usati, forse voleva rivelarli a tutti... o più probabilmente - e plausibilmente - stava ancora giocando con i suoi lettori.

Nel 1941 esce una raccolta di questi racconti/saggi destinata a diventare pietra miliare dell’autore: “Il giardino dei sentieri che si biforcano” (oggi raccolta in “Finzioni”). Nella premessa, Borges espone la sua onestissima dichiarazione d’intenti: «Delirio faticoso e avvilente quello del compilatore di grossi libri, del dispiegatore in cinquecento pagine d’un concetto la cui perfetta esposizione orale capirebbe in pochi minuti! Meglio fingere che questi libri esistano già, e presentarne un riassunto, un commentario. Così fecero Carlyle in “Sartor Resartus”, Butler in “The Fair Haven”: opere che hanno il difetto, tuttavia, di essere anch’esse dei libri, non meno tautologici degli altri. Più ragionevole, più inetto, più pigro, io ho preferito scrivere, su libri immaginari, articoli brevi».

In questa antologia si può ritrovare una gran quantità di pseudobiblia, di libri inventati dall’autore semplicemente perché recensirli è più “facile” che scriverli!

Prima edizione del 1941 di “El jardin de senderos que se bifurcan”
Prima edizione del 1941 di “El jardin de senderos que se bifurcan”

Il primo degli articoli brevi sui libri immaginari è “Pierre Menard, autore del «Chisciotte»”, in cui si analizza la vita e l’opera di un fantomatico Pierre Menard. Come si è detto in un precedente articolo di questa rubrica, il racconto del 1939 sembra partire dalla base de “Il Demone Oscuro” di Robert Bloch (racconto del 1936 di cui non esistono prove che fosse conosciuto da Borges) per andare però poi oltre.

«L’opera “visibile” lasciata da questo romanziere è di facile e breve enumerazione»: entrambe i racconti, infatti, iniziano con una “enumerazione”, con relativa analisi, dei titoli scritti dai rispettivi fantomatici autori (nel racconto di Bloch l’autore era Edgar Gordon), ma la storia di Borges cambia decisamente registro quando parla dell’opera più maestosa di Pierre Menard: egli infatti decide di scrivere il “Don Chisciotte”...

«Non volle comporre un altro “Chisciotte” - ciò che è facile - ma “il Chisciotte”» si sbriga a specificare Borges: non trascriverlo, né pensare come Cervantes e scriverlo come lui, ma scrivere il “Chisciotte” rimanendo Pierre Menard nel XX secolo! Per completare il paradossale divertissement, Borges mette a paragone due righe del “Chisciotte” di Cervantes con le corrispettive due righe della versione di Pierre Menard: gustiamole interamente!

«“la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.

Scritta nel secolo XVII, [...] quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.

La storia, “madre” della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine.»

È più che palese che le due citazioni sono identiche, ma scritte in epoche diverse sono soggette ad interpretazioni diverse... Un gioco letterario, come si diceva, ma dal gusto talmente sottile che riesce a convincere che Pierre Menard abbia veramente scritto il “Chisciotte”! Non il polveroso classico spagnolo, ma il vivo e spumeggiante libro che fu all’epoca della sua scrittura originaria.

Sullo stesso registro si muove “Esame dell’opera di Herbert Quain”, di due anni posteriore al “Menard”. «Herbert Quain è morto a Roscommon; ho visto senza sorpresa che il Supplemento letterario del “Times” gli dedica appena una mezza collana di pietà necrologica, in cui non v’è epiteto laudativo che non sia corretto (o seriamente redarguito) da un avverbio»: questo il delizioso incipit del racconto, prima di passare ad analizzare la sua vita attraverso la sua opera.

The God of the Labyrinth”, “Siamese Twin Mystery”, “Appearance and Reality”: questi alcuni dei titoli scritti da Quain e recensiti da Borges. Sono libri polizieschi pubblicati agli inizi degli anni ’30, ma non mancano le opere decisamente fuori dal comune: “April March” è un «romanzo regressivo, ramificato»!

Il gioco letterario prosegue imperterrito. «Quain compose gli otto racconti del libro “Statements”. Ciascuno di essi prefigura o promette un buon argomento, volontariamente frustrato dall’autore. Uno - non il migliore - insinua “due” argomenti. Il lettore, distratto dalla propria vanità, crede di averli inventati». Come se non bastasse un lettore che crede di inventare gli argomenti di un racconto, la frase e il racconto termina così: «Dal terzo, “The Rose of Yesterday”, io commisi l’ingenuità di ricavare “Le rovine circolari”, che è una delle narrazioni del libro “Il giardino dei sentieri che si biforcano”.»

Ecco che un autore inesistente influenza un autore esistente (Borges), il quale - per sua ammissione - scrive saggi su pseudobiblia, che però sono da ispirazione per i saggi stessi, in un cerchio letterario infinito!

Ne “L’accostamento di Almotasim”, si analizza il saggio “L’accostamento di Almotasim”, delizioso gioco del “libro nel libro” che ha tutta l’autorità e la rigorosità di un saggio letterario... anche se il libro non esiste!

The Approach to Al-Mu’tasim” è scritto dall’avvocato indiano Mir Bahadur Alí; la prima edizione esce a Bombay nel 1932, stampata su carta di bassa qualità ma sulla copertina c’è una scritta che avverte il lettore che trattasi del primo romanzo poliziesco scritto da un autore autoctono.

Non basta aver inventato tutti questi dati: Borges va più a fondo citando illustri recensori dello pseudobiblion!

«Philip Guedalla scrive che il romanzo [...] “è una combinazione piuttosto disagevole (rather uncomfortable combination) di quei poemi allegorici dell’Islam che mancano rara­mente di interessare i loro traduttori e di quei romanzi polizieschi che inevitabil­mente superano John H. Watson e perfezionano l’orrore della vita umana nei più distinti alberghi di Brighton”. In precedenza, Mr. Cecil Roberts aveva denunciato nel libro di Bahadur “la duplice, inverosimile tutela di Wilkie Collins e dell’illustre poeta persiano del secolo XIII Ferid Eddin Attar”». Va precisato che gli autori citati sono tutti esistenti, le citazioni no!

Insomma, un articolo di squisita critica letteraria che si fonde con la letteratura fantastica.

De “La Biblioteca di Babele”, fra i più grandi capolavori borgesiani, abbiamo già parlato precedentemente in questa rubrica, quando cioè è stato affrontato il tema delle biblioteche universali.

Per altre “Finzioni”, si rimanda al prossimo articolo.