Nel tuo racconto “La giornata di un’esordiente” (leggibile alla pagina:

http://www.ilgiornalaccio.net/&ricettacolo.htm) approfondisci gli stati d’animo che definiscono la condizione di aspirante-scrittore: trepidazione, disinganno, ansia di scrivere (e molti lettori condivideranno queste righe anche alla luce dell’esperienza personale!). Ritieni che il passaggio alla pubblicazione apponga il sigillo allo status di scrittore? O altrimenti: chi è uno scrittore?

Quel raccontino, che mi pare risalga al 2004, nasce da una serie di stroncature a catena. All’epoca avevo scritto una specie di polpettone fantasy pieno zeppo di aggettivi, ed ero talmente felice di aver terminato una storia da non rendermi conto di quanto sarebbe stato necessario lavorarci ancora sopra. Lo mandai anche alla casa editrice Nord e l’editor di allora, Gianfranco Viviani, mi mandò una mail di rifiuto, molto motivata e anche un po' seccata. Fu la cosa migliore che potesse capitarmi. Fino a quel momento avevo avuto la convinzione – sbagliatissima e purtroppo molto comune – che pubblicare fosse l’obiettivo finale. Poi nel frattempo sono successe altre cose: ho cambiato paesi e città, ho letto molto, non sono mai riuscita a fare a meno della scrittura.

Tutto questo per dire cosa? Che non lo so chi sia uno scrittore. Mi piace pensare che sia una persona che non sa fare a meno di scrivere, che ha sufficiente senso critico per capire se quello che ha scritto è decente oppure no, che non smette mai di guardare, sentire, imparare.

Nello stesso racconto, descrivi con molta ironia la reazione della protagonista alla risposta tanto temuta: «"Gentile signora, siamo spiacenti di..." diventa una miniera di criptogrammi, irta di significati nascosti e di trabocchetti retorici. Sto li' e guardo ogni parola, ancora, scomponendola in mille combinazioni; chissa', forse ho capito male, e il significato era tutt'altro. Quel purtroppo a meta' mi rovina un po' le cose, pero'; non si metterebbe una parola tanto brutta se la lettera fosse positiva, giusto? A meno che non sia, per dire, vogliamo pubblicare il suo magnifico libro, ma purtroppo non possiamo anticiparle piu' di ottantamila euro.» Provi adesso, invece, a spiegarci il tipo di appagamento/gioia/soddisfazione che hai provato quando ti è giunto il fatidico sì?

Quando Luigi Bernardi mi ha detto che era disposto a pubblicarmi stavo camminando in una specie di viuzza sconnessa e per niente carina. Appena ho capito quello che mi veniva detto sono inciampata e ho rischiato di sfracellarmi a terra. Questo per dirti in che stato mi ha messo la notizia. Credo anche di aver detto, una volta ripreso il controllo delle parole, qualcosa del tipo, ma no, dai, figurati. Sono stata felice, certo, ma non sono riuscita a trattenere un moto di terrore puro.

Ora ci dedichiamo al tuo nuovo romanzo. Perché la scelta del titolo “Corpi estranei”?

Mi piacevano le molte possibili interpretazioni, e la loro intercambiabilità. L’idea di un corpo inteso non soltanto in senso fisico, ma anche come entità.

L’ambiguità della domanda: estraneità da chi, da che cosa?

I tre personaggi principali sono uniti da un filo rosso, che pare allungarsi, tirarsi e stringersi durante gli otto giorni di svolgimento del romanzo. Ci parli di ciascuno di loro, della genesi, degli spunti biografici?

Il nucleo originario del romanzo è contenuto in un racconto che avevo scritto tempo fa, in cui si dipanava la vicenda dell’agente Cabras. Si intitolava ‘Corpo estraneo’ ed è capitato in mano a Luigi Bernardi, il quale ha sentenziato che era abbastanza una schifezza però insomma, lavorandoci su e dando un po’ una calmata al ritmo della narrazione, magari avrebbe potuto funzionare come romanzo breve. Poi però, mentre scrivevo, sono spuntati i personaggi di Silvia e di Alessia, e non ho potuto fare a meno di raccontarli. Come spesso succede, in principio me le ero immaginate completamente diverse da quello che poi si sono rivelate su carta.

L’asma di Alessia ha un’origine concreta ma sconfina anche in un altro tipo di ansia?

Alessia soffre di una patologia ampiamente documentata, dovuta all’esposizione a gas lacrimogeni contenenti un agente chimico speciale molto nocivo, il Cs, il cui utilizzo è proibito fin dal 1997 da ogni convenzione internazionale di guerra. Gas di questo tipo sono stati utilizzati a Seattle, in Québec, al G8 di Genova e anche durante la manifestazione che si è svolta due anni prima dei fatti che racconto (e che è naturalmente frutto di fantasia e via dicendo…).

Poi è chiaro che ogni malessere significa qualcosa, e certo non è un caso che Alessia respiri peggio quando si trova in una situazione di stress.

Anche l’Agente Cabras deve fare i conti con la fisicità. E col dolore. É un impedimento, questo corpo che fa le bizze?

Non dovrebbe, anzi. Il corpo è programmato per sentire, per fare da collegamento tangibile alla realtà, per aiutarci a capire cosa ci fa stare bene. È un fatto, però, che il mondo è pieno di gente che sta male nel proprio corpo, che se ne vergogna, che vive male. E le ferite non sono sempre e solo fisiche, come nel caso di Cabras.

Per l’agente Cabras, qual è lo shining del suo lavoro?

Cabras ha scelto un lavoro che potesse garantirgli una disciplina, che fosse in grado di indicargli sempre la direzione giusta, il pensiero corretto, l’azione necessaria. Ha eseguito gli ordini senza fatica, fino a quando non gli è capitato qualcosa di tremendo, che gli ha fatto capire come nessuno possa affidarsi a qualcosa di superiore per avere pace.

Parto da una bella citazione di Petr Kropotkin proposta nel tuo libro: «Le libertà non vengono date, si prendono.» Ci racconti una libertà che ti sei presa?

Penso di essere stata fortunata, e di essere riuscita a prendermi parecchie libertà, finora. Alcune sono talmente piccole da farmici ripensare con un sorriso, altre hanno segnato importanti punti di svolta. Di certo non potrei farne a meno.

Parlando di libertà letterarie, invece, adoro pescare in vicende che mi hanno colpita, ferita e/o indignata, e riuscire a rielaborarle, stando a guardare il modo in cui si trasformano.

Prossimi progetti?

Oltre a cercare di arrivare alla domanda 10, intendi?

È ancora presto per parlarne. Comunque sto scrivendo qualcosa di nuovo, questo sì.

Sei una grande lettrice di Beppe Fenoglio. Cosa ti piace della sua scrittura?

Fenoglio è uno scrittore che ho amato da ragazzina per i suoi racconti del parentado, e che ho riscoperto durante gli anni trascorsi in Inghilterra. Quel misto di espressioni langarole e di termini inglesi, quegli aggettivi roboanti eppure mai fuori posto, mi hanno sempre dato un piacere immenso nella lettura.

Per me è uno dei migliori e più autentici scrittori italiani. Non solo per le sue opere, ma anche per una vita breve divisa tra lavoro regolare, chiacchiere da piazza di provincia, notti a fumare e milioni di riscritture esasperate. Per la sua fatica nera di scrivere e lo spirito calvinista, così piemontese. Per questa onestà così dolorosa nel raccontare quello che è stata davvero la nostra Resistenza.

Una sua citazione che porti sempre con te.

‘Scrivo with a deep distrust and a deeper faith’. È esattamente il sentimento che mi agita quando comincio a lavorare sul serio su qualcosa.

Altri scrittori di riferimento?

Ce ne sono molti, e di sicuro me ne dimenticherò di importantissimi. Per citare solo qualche contemporaneo, direi le scritture secche di Carlotto e Lucarelli. Gli incubi visionari di Evangelisti e Genna. Il tratto nero di Manchette, la passione gelida di Daeninckx. E non posso non citare i mondi folli di Vonnegut, e poi l’ultima scoperta, in colpevole ritardo, di Foster Wallace: uno di quegli scrittori in grado di farti sentire un’assoluta nullità di fronte al genio.

Salutaci ora in rosso, con un bel rosso forte come la copertina del tuo libro. E magari spara un colpo da quella pistola...

Saluterei volentieri, ma se vedo rosso mi viene automaticamente da tenere i pugni chiusi.

La pistola, invece, è meglio che me la togliate subito dalle mani…