Da sempre l’uomo ha cercato di espandere, o forse mettere alla prova, la sua virilità viaggiando verso mete lontane. Nessuna meraviglia quindi che i Pulp sin dagli anni ‘50, epoca in cui il genere western cominciava a declinare in questa forma narrativa pur restando vivissimo in altre, abbiano visto un proliferare di riviste e storie di tale filone. Uomini soli, ardimentosi diretti verso oceani tropicali, paesi che nella tranquillità urbana il lettore poteva solo immaginare.... certo, le storie proposte da ‘True Danger’, ‘Real Men’, ‘Men’s Adventure’, ‘Man To Man’ forse non erano un esempio di verosimiglianza e documentazione. I luoghi comuni abbondavano ma c’era un piglio un vigore che già s’intuiva dalle copertine. L’Oriente e i mari del Sud fornivano un esotismo anche in un’epoca di modernità dilagante. Rappresentavano un’ultima frontiera dove ci si poteva ancora imbattere in mostri marini o della giungla, nei pirati,in donne esotiche e pericolose. Si andava formando un immaginario che prendeva certamente spunto dalla realtà ma la rileggeva mescolando passato, presente, sogno, finzione in un mondo a sé che era difficile non trovare affascinante. I pirati, ancora oggi che se ne parla nei telegiornali, restano un archetipo della pericolosa avventura in terra straniera. Che siano arabi mercanti d’avorio o di donne, malesi, caraibici, i pirati dai tempi dell’’Isola del tesoro’ sono nemici ideali per l’avventuriero protagonista dei Pulp ma anche quel genere di cattivo che ci “piace odiare”. E forse, tornado sulle orme di Salgari, vorremmo imitare. Meglio essere Sandokan o Longh John Silver che un guardiamarina spagnolo o inglese...

La storia di mare, di tropici delinea un orizzonte dove “un uomo è un uomo”. Concetto che, per il lettore di Pulp, è fondamentale proprio per soddisfare quella necessità psicologica di spogliarsi dei propri panni, dei compromessi e vestire quelli del Gi.I.Joe, dello spregiudicato avventuriero dal pugno facile e dalla pistola veloce. Uomini che possono permettersi di vivere da soli. Drifters. Stranieri senza nome. Gente che viaggia senza una vera occupazione e arriva in lande lontane alla ricerca di avventura. Cinici più che idealisti almeno in apparenza perché questo è un altro degli archetipi del genere. L’eroe dell’avventura ha il sorriso sardonico di Indiana Jones(serial cinematografico che si rifaceva proprio a quel genere di narrativa pulp). Sotto il capellaccio nasconde un sorriso anche se, alla fine, è un buono. Non gli piace farlo vedere, ha una sorta di pudore perché se rivelasse troppo esplicitamente di cercare cose apparentemente banali come affetto, amore, amicizia,sarebbe troppo simile al lettore. Invece, beato lui, nella finzione può fingere che non gli importi. Che tutto scivoli via e che i guai siano una benedizione. E non ci sarebbe avventura senza presenza femminile. Già lo dicevamo ma, nel racconto di avventura esotica la donna assume caratteristiche ancora una volta differenti da quelle della dark lady metropolitana. A volte è in fuga. Una cittadina finita in un pasticcio, magri per ritrovare il marito o il fratello, forse per sfuggire a qualcuno. Sulle copertine delle riviste d’avventura per uomini vediamo questo archetipo femminile caucasico, di solito biondo, legato al palo della tortura, sottoposto alla sferza del negriero di turno o nelle mani di qualche selvaggio. È la Donna In Pericolo. Le femmine esotiche (propagandate sulle riviste d’epoca come dee del libero amore insediate su isole tropicali) sono sempre scure, appassionate, misteriose. Pericolose in fondo. Sono le donne di Gaugin ma spesso nascondono terribili segreti. Se sono cinesi o giapponesi sono quasi sempre infide come Dragon lady di ‘Terry e i pirati’. La femmina bruna, tentatrice e peccatrice, è un retaggio della narrativa gotica che con questi tratti somatici già identificava la donna europea come foriera di disgrazie e tradimenti. Spostata in un universo tropicale questa ‘ fantasia’(perché altro non è) femminile può essere pericolo ma anche fascino. Si ammanta di un mistero che il lettore e il suo alter ego letterario non possono e, alla fine non vogliono, ignorare. E intorno a questi personaggi c’è sempre una foresta fittissima e un oceano perennemente in tempesta. Animali feroci, specie estinte, persino preistoriche sono pronte a balzar fuori per minacciare i nostri eroi. Il mostro, la tigre come il serpente gigantesco o addirittura il dinosauro scampato per chissà quali sortilegi ai tempi, sono un potentissimo veicolo di fantasie. Si badi non un semplice diversivo. Quando Sandokan(e dallì sempre a Salgari si torna ma anche Tarzan, piuttosto che a qualsiasi avventuriero) lotta con la tigre, con lo squalo, o il coccodrillo non sta vivendo un semplice espediente per guadagnare pagine. Lo scrittore Pulp ha troppa fantasia per aver necessità di questo genere di sotterfugi. Il confronto corpo a corpo con l’animale feroce è l’Uomo contro la Bestialità. “Non sono un animale, sono un uomo!” gridava il protagonista dell’’Isola del dottor Moreau’ facendo involontariamente il verso all’’Uomo Elefante’. Ma sull’isola del dottor Moreau, o in quella degli ‘uomini pesce’ se vogliamo guardare al ‘nostro cinema’ l’ibrido uomo-animale è un servo. L’Uomo, l’Avventuriero è sempre se stesso. È l’uomo della strada che, in barba ad animalisti e pseduo liberal, chiede a gran voce rispetto per quello che è, malgrado le umiliazioni inflitte dal progresso. Il Pulp, nella sua accezione avventurosa, è fondamentalmente una vicenda di affermazione di virilità. Reale o fantastica sta a chi legge giudicare. Sospetto che, per chi scrive, siano tutt’uno.... E anche l’indigeno, lontano dalle idealizzazioni del buon selvaggio, è, nel racconto d’avventura, generalmente un guerriero feroce, superstizioso, dedito a sacrifici umani. A volte c’è qualche nativo che si discosta da tale classificazione. Il ‘ dude’, l’amico dell’eroe che, essendo tale non può essere razzista. Alla fine dell’arcobaleno, come diceva Wilbur Smith - che prima di essere colto da una compulsività senile di distruggere con romanzi più che mediocri tutto l’universo costruito in decenni, ci sapeva fare - c’è sempre un tesoro. Un grisbì. Una montagna di luce, città d’oro dimenticate, un feticcio di ricchezza, un motivo materiale per dar forma a una pulsione. Uomini, donne, la Natura stessa, selvaggi e pirati. Tutti vogliono metterci le mani sopra e, quasi inevitabilmente, lo perdono. Solo stereotipi dunque? Una narrativa fatta di cliché? Non direi proprio. È vero che non ci sono storie completamente originali e tutto è già stato più o meno raccontato e i personaggi e le situazioni rientrano in un certo numero di classificazioni che si possono ibridare ma non replicare all’infinito. Sta nella capacità del narratore, nell’abilità del cantastorie che dava forma vicino ai fuochi a storie sempre uguali e sempre ugualmente avvincenti. Ho capito questa cosa molti anni fa, a Sanur, sull’isola di Bali. Vicino a un teatrino delle marionette ‘whayang kulit’. Il teatro delle ombre che continua da secoli a replicare lo stesso canovaccio del principe Arjuna, del Signore delle Tenebre, Rawana, e tutta la mitologia che deriva dal Ramayana. Musica di cimbali. Ombre. Voci come cantilene di esorcismi. Eppure la gente, il popolino segue il dalang, magico cantore di queste avventure, perché vuole crederci. Perché anche lì, ai tropici, nutre la speranza che un mondo fatato dai colori brillanti esista davvero. E solo il vero dalang è in grado di evocarlo. Pur raccontando la stessa storia.

E, a questa magia noi che l’avventura la scriviamo da tanti anni prima di tutto per noi stessi, vogliamo disperatamente credere. Io credo avesse ragione John Milius quando, riprendendo le parole di Shoendohffer mise in scena forse una delle più belle storie di avventura e utopia mai scritte ‘Farwell to the King’. Parlava di un operaio americano, arruolato a forza nell’esercito durante la seconda guerra mondiale. Dopo un naufragio viene catturato da una tribù di dayaki del Kalimantan. Non li conosce, li guarda e li chiama Comanchi, come gli indiani dei pulp che leggeva a casa. E ne diventa il re guidando la rivolta contro Il Generale Fantasma, ufficiale giapponese di leggendaria crudeltà. E al termine di un’avventura tragica nel suo svolgimento perché la civiltà non ha rispetto peri guerrieri,da qualunque parte stiano, un personaggio ricorda. “Per voi il Borneo è un luogo immaginario. Ai confini del mondo come il Tibet o la Terra del Fuoco. Ma io l’ho visto. E so che è un’isola reale.”

Vidi quel film prima di andare in Kalimantan. Ma in canoa, sul fiume Skrang, risalendo da Kuching il regno di Sarawak ho capito.

L’avventura vera, quella delle emozioni, è ovunque. Sta a noi riconoscerla e farne il nostro tesoro.