Ti sei cimentato in diversi generi: science fiction, fantasy, horror e noir. Ce n’è uno che senti più congeniale?

No, in realtà sono sempre stato piuttosto borderline nella mia scrittura, un apolide dei generi. Non mi sentivo accasato con nessuno in particolare, pur cimentandomi con entusiasmo sui confini di ciascuno di quelli che hai citato. Non amo le etichette e gli stilemi fissi, la mia vera identità l’ho trovata abbastanza di recente contaminando come autore e venendo contaminato come lettore.

 

Quanto la tua attività di giornalista ha influito, a livello formativo, in quella di scrittore (e viceversa)?

Ho sempre pensato che avrei lavorato professionalmente davanti alla testiera di un computer, con l’equivalente di una penna in mano. Il giornalismo è stato una scelta conseguente al mio sacro fuoco per la scrittura, anche se i punti di contatto sono meno evidenti di quanto si potrebbe immaginare. Scrivere e lavorare sui testi tutti i giorni aiuta molto l’igiene della scrittura, ma è cosa ben diversa dallo sviluppare una storia...

E poi sono giornalista alla testata “Ruoteclassiche” e quindi mi occupo soprattutto di passato...

 

Il romanzo “L’algoritmo bianco” è ambientato nel 2045, una fantascienza nel futuro prossimo. Com’è immaginato il mondo?

Siamo nella Milano fra 36 anni, una città sporca, balcanizzata e multietnica, nella quale ogni conto in sospeso viene regolato con il ricatto, la sopraffazione, la violenza di strada. Le coscienze sono ghiaccio alla deriva. Grazie a una tecnologia avanzatissima in grado di regolare - ottimizzandolo - il metabolismo di ciascun individuo, nessuno dorme più di due ore a notte. A che servirebbe? Gli edifici sono immensi conglomerati di moduli tutti uguali e autosufficienti. I graffiti si muovono strisciando da un muro all’altro, veleno allo stato puro. I cani randagi custodiscono algoritmi matematici e messaggi in codice macchina. Le pallottole viaggiano guidate dai satelliti, tutt’altro che infallibili. E’ sufficiente per farsi un’idea?

 

Ne “L’algoritmo bianco” la carta è un elemento funzionale al motore della storia: è sparita dalla circolazione e viene “trasformata” in allucinogeno. Come ti è venuta in mente questa idea molto potente?

Diciamo che è una sorta di metafora sull’uso spregiudicato di certi media - la carta stampata in questo caso - per narcotizzare le coscienze e mistificare la realtà. Un tema anche del mio precedente romanzo - “Infect@” (Urania, aprile 2007) - che però si soffermava sul potere “persuasivo” di un altro importante veicolo di comunicazione: le immagini.

In quel caso erano esse stesse droga, mentre nell’“Algoritmo”, la carta diventa ingrediente di un processo di trasformazione che avrà come prodotto finale un allucinogeno: quello che nel romanzo chiamo “fumo di pesce”.

 

Già con “Infect@” avevi introdotto una nuova droga trasmessa per via retinica. Quanto l’uomo è condannato alle sue dipendenze?

Credo che nel futuro la tecnologia renderà il nostro senso di libertà sempre più illusorio e le nostre dipendenze sempre più forti... Vivremo un autismo dorato, dietro a sbarre che saremo noi stessi a sceglierci. Sindrome di Stoccolma per tutti!

 

Molto curioso il nome del protagonista, Gregorius Moffa, killer free lance. Ci racconti la genesi e il motivo?

Gregorius Moffa è figlio del mio desiderio di cimentarmi con la creazione di una vera carogna. Un personaggio che risente molto gli echi delle classiche icone harboiled: passato torbido, presente tormentato, futuro perennemente in forse. Un antieroe sporco dentro e spietato fuori. Pigro, distratto, persino un po’ cialtrone, ma anche lucido e straordinariamente capace di rivolgere qualsiasi situazione critica a proprio vantaggio. Simpaticamente irriverente e politicamente scorrettissimo.

 

Nel romanzo lasci intendere che la lettura sia il miglior mantra contro la follia. E’ un principio fuori dal tempo?

Al di là del concetto astratto che la lettura ci aiuta a vivere meglio e a sviluppare un maggior spirito critico, c’è un perché funzionale alla storia: i testi scritti sono un anticorpo, una difesa immunitaria, contro l’aggressione di certi virus metalinguistici di cui si parla nel romanzo e che viaggiano nell’Agoverso e nelle linee telefoniche. Il messaggio (anche se non mi piace lanciare messaggi) è semplice: non fermatevi alla prima occhiata, approfondite, confrontate, soppesate con attenzione quello che vi viene detto/mostrato/scritto...

 

Banditi il cinema, la televisione e i giornali, l’industria del divertimento è dominata dall’Agoverso. Di cosa si tratta?

L’Agoverso è il non-luogo/non-tempo per eccellenza, grazie al quale ognuno può frugare nelle mente del prossimo, vivere emozioni di seconda mano, impossessarsi di ricordi, sogni, aspirazioni.

E farne liberamente commercio, in una sorta di mostruoso peer to peer legalizzato. Come divertimento basta e avanza, non credi?

 

Qual è lo shining della fantascienza?

Mi dai un milione di dollari se ti rispondo? La fantascienza di oggi ha perso molte connotazioni che le erano proprie fino a una ventina d’anni fa. Siamo andati sulla luna, molte delle “profezie” dei padri del cyberpunk sono diventate realtà, di clonazione si parla nelle pagine dei quotidiani... Viviamo in un mondo impregnato di fantascienza, e questo non è necessariamente un bene per chi la scrive. Si è perso il gusto del meraviglioso e della sorpresa d’impatto, dell’invenzione pura e semplice, del lasciarsi andare... Le conquiste spaziali non scaldano più l’animo di nessuno. Una volta chi voleva “vedere” il futuro poteva andare solo al cinema. Oggi il futuro è ovunque: cinema, tv, pubblicità, videogame... La fantascienza è diventata soprattutto visuale, un guscio vuoto, senza una speculazione seria intorno al nostro domani. Agli scrittori di science fiction spetta il compito di riportare il genere al suo straordinario potere visionario e immaginifico. Ma nel senso più profondo e maturo del termine. Grazie della chiacchierata virtuale, Thriller Magazine.