La prima volta li incontrai di mattina, in un bosco: lui, un omone di uno e novanta di altezza e due quintali di peso che strascicava a fatica, lei, piccola secca e mobilissima che lo incitava a muoversi più in fretta, e chissà come mi venne in mente quella fiaba dove si parla di un grosso pachiderma vinto da una piccola zanzara… Ero da qualche giorno nella località montana dove vado ogni anno e ormai sono di casa, ma quella coppia così stranamente assortita, parola mia, non l’avevo mai vista.

     Li rividi la sera nella sala da pranzo del mio stesso albergo, e, doppia combinazione, seduti al tavolo giusto vicino al mio. Stavano già cenando, e nel sedermi anch’io accennai un cordiale saluto, come si usa tra villeggianti. Che loro lasciarono cadere senza  degnarmi di uno sguardo. Che zotici, pensai un po’ piccato, e mentre li occhieggiavo  cercando d’indovinare da dove venivano, chi erano, mi accorsi presto che l’origine di quella scortesia non era tanto per mancanza di "savoir faire", ma semplicemente perché non mi avevano visto: lui tutto preso da quel che aveva nel piatto e che sceglieva con la minuziosa, pedante lentezza degli ingordi – quelli veri non mangiano mai in fretta, lei che al contrario piluccava veloce qua e là pensando più a parlare che a mangiare, così diversi, così stupendamente opposti da formare una sintesi compiuta, un’unità, un tutt’uno. Insomma mi ero imbattuto in un’autentica Coppia, una sorta di Stallio e Ollio formato bisex, e siccome la cosa mi intrigava parecchio, per poterli osservare con comodo senza esser scoperto pian piano mi spostai – non mi vergogno a dirlo, dietro il gran ficus che separava i nostri tavoli e che pareva messo apposta.   

      Me ne stavo dunque là seminascosto, quando notai un fatto più singolare ancora. L’omone stava attaccando il suo terzo antipasto, e – da non credere! – era proprio lei, quella donnina che non mangiava niente a spingerlo a strafarsi. E infatti non la smetteva di riempirgli il piatto per poi guardarlo compiaciuta ruminare, la testa bassa da bue, laddove lei si contentava di coglier qua un’oliva, là una cipollina, che becchettava appena col suo bocchino da passero! Ne ero completamente affascinato.

     Eppure, a un’analisi più attenta, quel mangione che consumava il suo pasto con tanto impegno ostinato, morso dopo morso e senza badare ad altro, non pareva contento, anzi. Più che soddisfare il suo appetito, ecco, dava l’impressione di subirlo quasi fosse una condanna senza appello, di vergognarsene come di una colpa inconfessabile, mentre lei pareva felicissima a vederlo ingozzarsi come un orco…

     Sentii alle mie spalle un tossicchiare discreto. Era arrivato il cameriere col menù, e me lo stava porgendo impassibile, con professionale distacco. Mi ricomposi in fretta, e per nasconder l’imbarazzo mi misi a leggerlo voce per voce, enfatizzando l’impegno: tra l’altro sono quel che si dice un buongustaio, cioè niente a che fare con l’ingordo – benché qualche moralista dispeptico sostenga che è lo stesso, e dopo un esame meditato scelsi fagiano ripieno al foie gras e un guazzetto di porcini con polenta, il tutto annaffiato da un robusto cabernet. 

      Tornai ai due, e ciò che vidi poco mancò che mi facesse andar di traverso il grissino che nel frattempo stavo sgranocchiando. Dopo aver fatto fuori tre antipasti e due piattoni di gnocchi, ora il povero grassone aveva davanti l’intero stinco di vitello del vassoio, ed era stata lei a trasferirglielo nel piatto. L’intero stinco, a quell’obeso! Che impulso distruttivo, quale oscura perversità spingeva quella donna a comportarsi così? Lui prese a spolparlo, cupo ma determinato, e improvvisamente cominciò a farmi pena, intristito com’era. Sembrava un  condannato a morte al suo ultimo pasto… 

 Intanto avevano portato il mio fagiano, e stavo mettendo in bocca il primo pezzo che quella fece un mezzo giro sulla sedia, e annullando d’un colpo il mio nascondiglio vegetale si voltò verso di me e mi sorrise. Restai con la forchetta in aria. E io che credevo di essere invisibile! E finora aveva funzionato… A che dovevo quell’interesse tardivo? Al sorriso seguì una domanda: “Buono?” mi domandò mostrando il piatto. “Buono” risposi là per là, ingoiando il boccone e l’inquietudine: che il grassone mirasse ora al mio fagiano? “Perché non viene qua con noi?” continuò accattivante “E’ più carino cenare in compagnia, no?” “La ringrazio” schivai là per là, “è che non vorrei dar da fare al personale…” “Sciocchezze” ribatté con un tono che non ammetteva repliche, “mica devono apparecchiare un altro tavolo”.

 Il ragionamento era ineccepibile e andò a finire che traslocai – col mio fagiano ben saldo per paura che me lo prendesse l’orco, ci presentammo e cominciammo a chiacchierare. 

 Per l’esattezza cominciò lei, e in due minuti già sapevo che erano sposati da tre anni e che erano lì su consiglio del medico che aveva prescritto a lui un regime di dieta, aria pura e moto. “Dobbiamo buttar giù sessanta chili, sa, le coronarie” mi confidò disinvolta come se dicesse “dobbiamo cambiar scarpe, sa, i calli”. Alla faccia della dieta!, pensai guardando l’omone che continuava a ingozzarsi e non aveva aperto bocca se non per masticare, e per sviarlo dal suo osso mi rivolsi decisamente a lui: “Mi dica, che gliene pare di questo luogo?” gli domandai amichevole “Ci si sta da papi, non è vero?”

 Lui si limitò ad alzare gli occhietti appannati dai vapori che gli venivano dal piatto, anche stavolta a parlare fu lei: “Sì, il posto ci piace, per quanto dobbiamo ancora ambientarci. Prima si andava al mare – per lo iodio che stimola la tiroide, sa, ma il guaio è che al mare si sta tutto il tempo distesi, non si fa moto abbastanza, e così il medico ci ha suggerito questa zona che ha la giusta altitudine per noi che non siamo propriamente alpinisti, lo avrà capito, ma che con un minimo d’impegno…” Non la smetteva più! E come mai usava quella curiosa forma collettiva? Che il povero obeso fosse muto?

      Ormai avevo terminato indenne il mio fagiano, e stavo attaccando il guazzetto di porcini  convinto di esser di fronte a un sordomuto, che lui mandò fuori una vocina fioca – un fil di voce, come fosse strozzato dalla sua stessa mole: “Vorrei un dolce” esalò, e non aveva neanche finito che quella chiamò pronta il cameriere e gli indicò il dolce più calorico che c’era, una torta di panna e cioccolata, una bomba. Dopo la montagna di cibo che gli aveva fatto mangiare! Ero sdegnato, e non mi trattenni più. “Non per intromettermi” dissi accennando al dolce, “ma non crede che sia un po’ pesante per uno che deve stare a dieta?” Lei si mise a ridere come se avessi fatto una battuta. “La dieta non l’abbiamo mica cominciata, non l’aveva capito?” mi rispose giuliva “Stasera festeggiamo per l’appunto l’ultimo pasto”.

     Aveva usato la stessa immagine sinistra che poco prima era venuta a me… era inquietante. Poi mi spiegò. Per iniziare in allegria il nuovo corso e dar l’addio al regime vecchio per il nuovo, aveva escogitato un “ultimo pasto”, la cena pantagruelica con cui chiudere in bellezza mangiando tutto ciò che si voleva – e più. “Non è un’idea grandiosa?” concluse elettrizzata. “Ma, le coronarie?” obiettai, guardando l’omone ansimante e sudato che mi pareva prossimo all’infarto. “Giorno più, giorno meno…” rispose l’incosciente, “e domani si comincia, no?” Lasciai cadere il discorso. Ormai il mio stomaco era appagato, la mia curiosità pure, e stavo per alzarmi con una scusa qualsiasi che lei la riaccese di colpo. “Anche il mio primo marito apprezzava la buona cucina” buttò là con nonchalance, “uguale identico a lei, caro signore. Sì, lei me lo ricorda moltissimo”.  

 Aveva gettato l’amo e io abboccai. Dunque c’era stato un primo marito… Perciò quella donna insopportabile, almeno per due uomini era stata irresistibile… “Così lei è divorziata” commentai, più che altro per indagare. “Vedova”, precisò con un sospiro. Per riflesso guardai lui, sempre alle prese con la sua bomba calorica: quella rischiava una seconda vedovanza, e la rischiava forte! “E non è stata la prima volta, sa?” aggiunse vaporosa, “pure il mio secondo marito mi morì di punto in bianco”. “Coronarie?” balbettai. “Coronarie” confermò, e mi si fece più vicina. “Mangi un dolce anche lei” mi disse carezzevole, “non vorrà farmi credere che non le piacciono… Si vede subito che lei è uno che se ne intende”. E mi squadrò come se mi prendesse le misure.

 Non so perché, ma mi venne un brivido. 

* * *

                                                                             

 Il giorno dopo mi svegliai piuttosto tardi, con una fiacca insolita ma piacevole. Colpa del dolce che avevo finito per prendere dietro alle asfissianti insistenze di lei, e sì, anche del vino che aveva voluto offrirmi per festeggiare il nostro incontro, un passito d’annata che mi ero centellinato con voluttà religiosa, se così si può dire – e del resto si trattava di vinsanto. Mi venne in mente il povero grassone alle prese con quell’assurdo, esagerato “ultimo pasto” concepito da quella stravagante: per quella strana donna ogni pretesto era buono per festeggiare, lo avrebbe fatto anche se ci scappava il morto! Chissà che ne era di lui, mi chiesi con una certa inquietudine. Per scoprirlo non mi restava che alzarmi.

 Appena pronto raggiunsi la saletta dove venivano servite le colazioni. Lei era già là: sola, notai all’istante, e fu con sincera apprensione che m’informai del marito. Lei mi rispose con un gesto vago, dal che dedussi che era ancora su. "Le coronarie hanno retto" pensai rassicurato, e feci per proseguire. “Da bravo, mi faccia compagnia” mi fermò agguantandomi un braccio, “potremmo intanto far colazione noi due” e m’indicò quel posto vuoto. Il ricordo della cena era così vivo che nel sedermi volli metter le mani avanti: “Il mattino bevo un caffè e basta” l’avvertii severo. “Peccato… vuol dire che questo miele selvatico me lo gusterò sola soletta” gorgheggiò l’adescatrice, e lentamente prese a spalmare il pane con quell’oro. Potevo resistere, io che amo il miele più di un orso? – e quello selvatico, poi! “Ne assaggerò giusto un pochino” mi arresi, e non avevo neanche finito che mi trovai in mano la fetta.

 Il miele era squisito, con una punta aromatica che sapeva di resina e di bosco, e stavo per ordinare il mio espresso che lei mi anticipò: “Che caffè e caffè, qua ci vuole una tazza di latte appena munto, quel buon latte cremoso che in città dove lo trova? Pensi che lo portano direttamente dagli alti pascoli”. Dagli alti pascoli! E mi si aprì davanti agli occhi una distesa smeraldina punteggiata di mucche che brucavano quiete dondolando le mammelle colme… Ne fui rapito, e ne bevvi non una tazza ma tre.

 Per farla breve: feci una scorpacciata, e stavo là, mezzo intontito dalle sue premure e dal cibo quando mi tornò in mente lui, il povero mangione, l’ultimo marito di quella barbablù che già ne aveva seppelliti due. “Possibile che dorma ancora?” le domandai, stavolta veramente inquieto: il suo ritardo cominciava a esser eccessivo…

 Lei non si scompose. Finì di spalmarmi un’altra fetta e mi guardò. “Questo miele sveglierebbe anche un morto” disse sorniona, e aggiunse: “In senso figurato, si capisce”.

 Poi mi sorrise e mi allungò la fetta.