Qualche anno fa, durante un turno di servizio in cronaca giudiziaria, tra i vari processi della giornata cui dovetti assistere ce n'era uno che mi colpì in modo particolare.

Imputata era una guardia carceraria, accusata da un detenuto di maltrattamenti e abuso di potere. Secondo il racconto fatto in aula, il pestaggio era avvenuto la sera del giorno di Natale. Il detenuto, che divideva la cella con un compagno, in preda allo scoramento e a una dolorosa nostalgia, come spesso accade in un carcere nei giorni delle feste, aveva cominciato a "fare voci". Si era messo a cantare, voleva improvvisare una specie di festicciola non senza un pizzico di irriverenza e aveva finito per fare un po' troppo chiasso. Così la guardia carceraria era intervenuta e dopo un breve battibecco l'aveva picchiato, colpendolo più volte al ventre per non lasciare lividi, come fu riferito in aula. Questo secondo l'accusa.

Durante l'udienza furono sentiti come testi i colleghi della guardia carceraria e il compagno di cella del detenuto picchiato. I primi negarono ogni violenza, il secondo - che in fase istruttoria aveva invece confermato il pestaggio - in aula ritrattò ogni cosa.

Ricordo quest'uomo - il testimone - all'epoca ancora carcerato. Era pallido e magro, il volto scavato, i capelli lunghi spettinati, le braccia tatuate. Era arrivato nell'aula del tribunale scortato dalle guardie carcerarie, gli stessi colleghi dell'imputato, e alle domande del pm, della difesa e del giudice rispose con un'infilata di sommessi e sussurrati "non ricordo", mentre le guardie carcerarie ostentavano un'aria del tutto indifferente.

Siccome spesso la realtà è esattamente come pensiamo che sia, era evidente che l'uomo era stato intimorito, anche perché - va detto - il detenuto accusatore aveva nel frattempo scontato la pena, e adesso assisteva al processo da libero cittadino, al riparo da ogni possibile ritorsione qualora fosse stato ancora in carcere.

Durante il dibattimento l'accusa non era stata in grado di produrre convincenti referti medici sull'avvenuto pestaggio, i colleghi dell'accusato avevano confermato l'intervento in cella ma negato la benché minima violenza, per cui l'unico elemento a sostegno dell'acccusa era la testimonianza del compagno del detenuto picchiato.

Di fronte alla sua ritrattazione (non c'era ancora l'incidente probatorio), però, rimanevano ben pochi elementi in mano all'accusa. Anzi, la parte offesa rischiava una denuncia per calunnia. Il processo si concluse con una sentenza di assoluzione nei confronti della guardia carceraria "perché il fatto non sussiste".

Terminata l' udienza mi resi conto che, come talvolta accade nelle aule giudiziarie, avevo di fronte due verità: una verità di diritto, espletata nella forma della sentenza, e una verità esperenziale, espletata nello sguardo impaurito del teste chiave. Da una parte la vita, dall'altra il giudizio. 

Nel pomeriggio dello stesso giorno scrissi una breve cronaca del processo esponendo  i fatti in modo essenziale e il più preciso possibile, senza alcun accenno - ovviamente - alla possibilità che il teste chiave potesse essere stato intimorito e costretto a ritrattare.  Ne risultò un articolo breve e arido che non sarebbe riuscito in alcun modo, come avrei invece voluto, nell'intento di instillare nei lettori del giornale - anche i meno accorti - il dubbio che la realtà non fosse quella riportata nel resoconto di cronaca, e che le verità molto probabilmente rimaneva da un'altra parte, e cioè al di là di quella "barriera con il mondo" costituita dalla sentenza.  Speravo che l'esposizione dei fatti in sé bastasse a suggerire ciò che, come cronista, non potevo dire, a pena di cadere nell'illazione, facendo così un cattivo servizio prima di tutto al lettore (oltre, ovviamente, a rischiare una querela).

In qualità di cronista avevo svolto - suppongo - il mio lavoro in modo diligente, ma come narratore provavo la spiacevole sensazione  di chi non può usare le parole per rappresentare quella certa realtà esperienzale, per il semplice motivo che "il diritto, comunque si manifesti, paralizza il tempo e le forme" (1).

Ecco, provavo una sensazione quasi di paralisi, e mi resi conto che, se volevo liberare le parole, se volevo portare il lettore vicino a quella realtà non solo di diritto della quale avevo avuto esperienza, allora avrei dovuto abbandonare il territorio della cronaca e inoltrarmi in quello della narrativa.

La causa, intesa non come litis, ma come quaestio, e cioè considerata in tutte le sue fasi di istruttoria, dibattimento, sentenza, è una storia - vale a dire una "rappresentazione di avvenimenti e situazioni (…) in una sequenza temporale" (2) - racchiusa in una procedura, cioè nel complesso delle norme e dei codici che regolano il processo.

Se compito del cronista è quello di liberare la storia dalla procedura in funzione informativa secondo le regole e le tecniche della scrittura giornalistica (tenendo sempre conto che la "perorazione narrativa (…) rimane per l'uomo della strada il portale per l'arcano reame del diritto" (3)), compito del narratore è invece quello di liberare la storia dalla procedura in funzione di rappresentazione: non è più un' informazione e una comunicazione del fatto giudiziario, ma la sua rappresentazione in funzione letteraria, e quindi emozionale, speculativa, etica, morale ecc.

Questo perché "la letteratura smaschera il diritto" (4), e sottrae la rappresentazione degli avvenimenti ai lacci di un formalismo procedurale che è "povera scimmia dell'esperienza, realtà immaginaria che pretende di sovrapporsi a quella vera" (5).

Il cronista effettua in sostanza una semplificazione formale che deve però rispettare la procedura, il narratore invece - che si tratti di fiction o non-fiction - non è tenuto al rispetto della procedura: i codici espressivi prevalgono sui codici procedurali e informativi.  Si tratta, in buona sintesi, di togliere quelle che l'avvocato-narratore francese François Gayot de Pitaval, nel presentare nel 1734 le sue "Cause celebri ed interessanti", una delle prime raccolte moderne di novelle giudiziarie, definì le "spine del Palazzo".

Ma, una volta redatta la breve cronaca del processo alla guardia carceraria accusata di aver picchiato un detenuto, o meglio a prescindere da questa, come avrei potuto "liberare" la storia in una forma narrativa? Diciamo che al narratore sono date almeno tre possibilità:

_ La procedura è il meccanismo che muove la narrazione. Il racconto del processo diventa l'intreccio, inteso come successione dei contenuti d'azione: la storia del detenuto picchiato diventa dunque un legal thriller, il racconto è la storia di questo processo.

_ La procedura entra nella storia, nella sua struttura. La procedura è la fabula che accompagna la successione causale e temporale degli eventi: è, nella vicenda narrata, il momento che "segna la presenza del tempo" (6). Avrei potuto, ad esempio, raccontare la  vita del detenuto o della guardia carceraria a partire dal processo, o avere il processo come punto d'arrivo, oppure lasciare al processo il compito di unire come un fil rouge lo svolgersi della vicenda. 

_ La procedura è la storia.

La vicenda del detenuto picchiato può essere scritta nella forma dell'interrogatorio del suo compagno di cella, o di una confessione o di un'arringa: in pratica il codice espressivo della narrazione - la lingua e lo stile - è una mimesi del codice procedurale. 

Ma queste sono solo tre delle forse infinite possibilità che ha il narratore di rappresentare la realtà attraverso la forma del racconto giudiziario, e questo sia nel caso che la storia "liberata" sia "vera", "inventata" o un misto di verità e di invenzione.

Il punto fondamentale resta quello di vincere il conflitto insito fra diritto e letteratura. Il giudizio, per sua natura, ferma, blocca le azioni e le passioni della vita: se ne nutre, le cerca, ma in quanto giudizio per poterle capire, esaminare e valutare  le deve fermare, come il naturalista "ferma" gli animali sotto vetro in formalina per poterli studiare nel tempo.

Il narratore deve invece tornare a far fluire azioni e passioni perché il suo scopo non è il giudizio, ma una critica del giudizio, quindi un'esplorazione di limiti e possibilità. Il giudizio diventa per il narratore un'opportunità spesso straordinaria, il "territroio del diavolo" dove poter effettuare le proprie scorribande, dove mettere in gioco anima e pensiero. "La lingua non può sostituire la morale e i valori (…) ma è destinata a colmare il vuoto quando ogni altra cosa si dissolve" (7), ed è per questo che per un narratore la legge - la procedura -  può diventare "il sistema culturale estrinseco più importante alla luce del quale verificare i (propri) dubbi" (8). Giustizia e ingiustizia diventano così i poli entro i quali si muove un sistema dove il  narratore può trovare la via espressiva migliore per rappresentare una realtà spesso sfuggente.

E' un fatto, del resto,  che "il rapporto tra estetica ed etica, tra forma e sostanza e fra teoria interpretativa e contesto storico viene affrontato al meglio proprio attraverso l'uso letterario di tematiche giudiziarie" (9).

Ogni storia, ogni narrazione nasce da una crisi, un evento, un pensiero, un ricordo un'azione che interrompono un equilibrio, un'esistenza indirizzando la vita verso una nuova ricomposizione, un nuovo equilibrio, al quale la narrazione dà forma e, direi, sostanza. Ogni atto della legalità - soprattutto il processo -  ha la stessa funzione di rottura e ricomposizione: è la presa d'atto di un corto circuito, ed è là, nel punto di rottura della faglia, che il narratore va a cercare quella "mediazione simbolica" che "trasforma l'universo naturale in un universo di senso" (10).

Tra cronaca e finzione, l'atto giudiziario "è un atto di interpretazione" (11), e come tale indica al narratore una via privilegiata all'interpretazione del mondo,  offre un'altra possibilità di dare un nome alle cose, di compensare la mancanza di trasparenza della vita, e insomma di fare luce non sulla verità, ma sulla ricerca della verità, esplorando lo spazio dell' intervallo fra l'evento e la sentenza, là dove avvengono i corti circuiti della vita.

 

Note:

1 _ E. Di Mauro, "Il giudice e il suo scriba - Narratori davanti alla legge",   Libri Liberal, Firenze 1998, p. XXII.

2 _ G. Prince, "Narratologia", Pratiche, Parma 1984, p.6.

3 _ J. Bruner, "La fabbrica delle storie - Diritto, letteratura, vita", Ed. Laterza, Bari 2002, p. 52.

4 _ E. Di Mauro, op.cit., p. XIV.

5 _ Ibid., p. XV.

6 _ P. Jedlowski, "Storie comuni - La narrazione nella vita quotidiana", Bruno Mondadori, Milano  2000, p. 10.

7 _ R. H. Weisberg, "Il fallimento della parola - Figure della legge nella narrativa moderna", Il Mulino, Bologna 1990, p. 281.

8 _  Ibid.

9 _   Ibid., p. 282.

10 _ P. Jedlowski, op.cit., p. 49.

11 _ R. Ceserani, Il gioco delle parti, in E. Scarfoglio, "Il processo di Frine", Sellerio, Palermo 1995, p. 15.