Mi fa molta paura un serial killer che in Italia uccide una persona al giorno, talvolta anche due. Si chiama lavoro, ma pochi giallisti se ne occupano. Mi fanno paura i centri cittadini pieni solo di banche e uffici, la sera è come camminare in una simulazione virtuale senza vita. Mi fanno paura le villette a schiera e i condominii dove le famiglie si rintanano in cerca del benessere. Le cifre dicono che dentro quelle mura si soffre e si uccide spesso, quasi più spesso che in strada. Ma ci convincono che è pericoloso uscire la sera. Mi fanno paura i tralicci dell’alta tensione che passano sopra le nostre teste, mentre la tv ci inspira il terrore per un morbo contratto in Cina da alcuni contadini che dormivano assieme a polli e galline.

Mi fa paura il modo deviato e nevrotico in cui esorcizziamo le nostre paure, quindi se posso cerco di non farlo.

Il mio rapporto con il cibo? E’ un rituale da consumare con assoluta calma. La mia lentezza nel mangiare è diventata proverbiale, alcuni la trovano estenuante e li capisco. Ma non ci posso fare niente. Chi mangia piano può ingurgitare quantità di cibo mostruose e io, fino a qualche tempo fa, ero capace di mangiare da far spavento. In più adoravo cose come le bracioline fritte con la maionese, le salse chutney al mango, tacos e nachos grondanti di guacamole e trafiggevo wurstel senza pietà. Poi mia sorella, che fa l’infermiera, mi ha informato che o tiravo giù qualche chilo, o dovevo smettere di giocare a calcio, perché le mie ginocchia cominciavano a dare segni di stanchezza.

Contemporaneamente ho conosciuto la donna che poi è diventata mia moglie. L’ho vista inorridire di fronte al mio frigo e ho capito di essere un uomo fortunato, uno dei pochi che poteva conciliare l’amore per una donna e quello per il calcio. In realtà mangio ancora tanto e sempre lentamente, ma diciamo che ho scoperto anche i piaceri degli spinaci, della bietola e delle verdure al vapore.

Per altro non posso negare di aver instillato a mia moglie un minimo gusto per il peccato di gola, e quindi per i dolci.

Amo tantissimo i dolci della cucina semplice, tipo il castagnaccio e la torta di verdure lucchese. In quanto toscano della costa, non cambierei un buon cacciucco (quello di mia madre o di mia sorella) con niente al mondo. Ovviamente il vino per antonomasia è il rosso (e poi non si annaffia il cacciucco con il bianco, si sa). Mi piacciono tutti i tipi di birra, ma la mia preferita è la Guinness, una birra che purtroppo mal sopporta i viaggi lontano dall’Irlanda e che spesso in Italia non viene spillata come si deve. Fuggo come la peste i cocktail, gli amari dei frati e i superalcolici dolci. Detesto l’alcol non solo come surrogato dello psicofarmaco, ma anche come digestivo. L’orrore supremo? Finire un pasto con il limoncello. Il whisky invece è un mio ideale compagno di riflessione e di conversazione, qualcosa che apre uno spazio mentale evocativo. Quelli scozzesi lavorati con la torba ti fanno arrivare, lentamente, il sapore del vento, delle folate salmastre, dell’erba fredda. Lagavulin, Laphroaig e Oban: meravigliosi.

Gli scrittori possiedono una certa dose di vanità, e talvolta con molta vanità coltivano il mito della trasandatezza, della camicia gualcita, degli eccessi che minano il fisico. Prese di per sé le trovo delle solenni stupidaggini. Poe, Hemingway e Bukowski avrebbero preferito, come tutti noi, che certi eccessi non portassero con sé dolore e sofferenza. Io sono d’accordo con Simenon: per scrivere romanzi ci vuole il fisico, perché il peso di un mondo deve appoggiare su spalle forti. Per cui preferisco allenarmi, tenermi in salute, dormire bene. Oltretutto, siccome correre per un’ora è così mortalmente noioso, devo per forza trovare un antidoto: per me è pensare a quello che scriverò, a come risolvere uno snodo della trama, a come raccontare meglio un personaggio. La fatica è un’ottima consigliera, oltreché una piccola droga.

Io mi muovo fra Viareggio, dove sono nato, e Livorno, dove abito con mia moglie. Non sono metropoli, quindi piedi e bicicletta sono più che sufficienti per spostarsi. Credo che difficilmente potrei vivere in una città lontano dal mare, anche culturalmente.

Come tanti ventenni degli anni 90, sono cresciuto con il mito del’Irlanda, almeno quanto i ventenni degli anni 70 sono cresciuti con il mito dell’America Latina. Ci sono parti del mondo che, in un dato momento, catalizzano fantasie ed energie. Subito dopo l’Irlanda è stata la volta della Spagna. Credo che Dublino e Barcellona si siano riempite di italiani non solo per moda. Irlanda e Spagna hanno tratti in comune con l’Italia, come per esempio la forte componente cattolica e un passato travagliato di guerre civili nient’affatto remoto. Ma oggi guardano avanti e sono dinamici. In Spagna guida il governo un quarantenne, in Irlanda è stata presidente della Repubblica una donna. Tutta roba che, da noi, è fantascienza. Credo sia stato naturale per noi italiani vedere in questi due paesi simili al nostro ciò che l’Italia non diventerà mai, finché qui continua a comandare una élite decadente di vecchi mandarini paranoici, arroganti e senza idee.

Scrivo la mattina, molto presto. Stacco nel mezzo della giornata. Di pomeriggio studio e mi documento. Verso sera, quando sono stanco, rileggo quello che ho scritto la mattina per giudicare se è veramente buono. Perché in definitiva è così che legge un libro molta gente: alla fine di una giornata di lavoro. Se una pagina passa al test della sera, è okay.

A me piacciono i computer, sono il tipico esemplare di mac-user persino un po’ snob che cerca in giro per la rete utilities, widget e programmini spesso del tutto inutili. Ma mi piace fare schemi e scrivere i nomi dei personaggi con la penna. E poi devo sempre farmi una rilettura su carta di tutto il romanzo, scarabocchiando, mettendo tre punti esclamativi di fronte a una cosa bella o  a una davvero orribile.

Sembra strano, ma ci sono errori che saltano agli occhi solo sulla carta, o addirittura in bozza, quando il formato della pagina è quello del libro stampato.

Con il tempo ho imparato a governare le idee. Costa molta fatica, ma ne risparmia tantissima al lettore. Abbandonarsi è fondamentale, lo stato creativo è sempre una trance, una  buona intuizione è sempre irripetibile, misteriosa. Ma se vuoi che qualcun altro, poi, entri in quella trance, devi ripassare tutto a un vaglio più razionale. Ed è un lavoro lunghissimo e delicato.

Non ho mai provato il famoso terrore della pagina bianca, no. Io in realtà scrivo molto, molte pagine anche inutili, molte pagine che poi verranno tolte dalla versione definitiva, ma che mi servono per inquadrare i personaggi, la storia, gli scenari.

So rispettare abbastanza le scadenze, se serve. Ma so anche che in tutte le cose buone, che siano il vino o il whisky, un’amicizia o una foresta secolare, il tempo deve fare la sua parte. Devo dire che Einaudi, in questo senso, è un editore molto comprensivo e rispettoso.

Piccolo trucco? Difficile dirlo. Personalmente non amo lo scrittore-personaggio che in una tavolata si sente in obbligo di dare opinioni fulminanti su qualsiasi cosa. Lo scrittore vero, per come lo concepisco io, è sempre investigatore e vampiro. Studia gli altri, li ascolta, talvolta li origlia, li interroga con domande apparentemente innocue. Cerca sempre di capire, di intuire la verità al di là di quello che gli altri vogliono dire. Si nutre della vita degli altri, percepisce il calore del sangue, della passione, dell’emozione in un dettaglio banale che quasi tutti trascurano.

E’ un predatore, come tale preferisce mimetizzarsi che fare la ruota.

Vorrei solo dire che imparo continuamente dagli scrittori che frequento o che ho l’occasione di conoscere. Spesso da quelli che fanno cosa più lontane dalle mie. Qualche volta a tavola, qualche volta leggendo i loro libri, qualche volta lavorando assieme o su un campo di pallone. Talvolta invidiandoli anche, diciamolo. Ma questo scambio è vitale. Chi non lo fa, non cresce.

Ho conosciuto le nonne sì, i nonni a malapena. Riguardo al passato, io ho iniziato a scrivere con un romanzo basato in gran parte sulla memoria e sui ricordi dei miei vecchi. Cristiano Cavina dice che si scrive essenzialmente per non perdere qualcosa. Penso che abbia ragione.

Se la malattia e la morte mi fanno paura? Qui, invece, secondo me ha ragione Piero Ciampi: “La morte non mi fa paura. Ma la vita sì.”

Non ho mai saputo di avere il sonno davvero pesante fino alla notte in cui un ladro è entrato in camera mia e con tutta calma mi ha tolto il portafoglio dal comodino e i soldi dal portafoglio.

Attualmente vivo con le parole, in senso lato. Scrivo articoli, faccio traduzioni, tengo corsi di scrittura, organizzo incontri e tutte queste cose qua. Come tutti quelli che fanno lavori che amano, ritengo di essere una persona molto fortunata.

Io sono toscano, ma il mio debito di gratitudine amicale e professionale va senz’altro verso l’Emilia, verso amici e autori come Macchiavelli, Lucarelli, Baldini, Rigosi. E soprattutto verso Luigi Bernardi, una persona di un’intelligenza e di un’onestà intellettuale rare.

No, non mi interessa far sparire nessuno. Mi accontenterei che si ritirasse a vita privata qualche vecchio mandarino di cui sopra, qualche faccia impresentabile, qualche megalomane innamorato ormai solo del proprio protagonismo.

Se mi piacerebbe essere invisibile? Data la mia risposta prcedente sui vampiri e gli investigatori, ovviamente sì. Per tutti i motivi possibili e immaginabili.

Mia moglie e io siamo cultori convinti dell’ozio sfrenato. Niente parapendio, per carità le gite in barca, il free climbing e alla larga persino il trekking. Coltiviamo l’ozio per l’ozio. Godersi la vita vuol dire rallentare, femarsi a riflettere, esplorare a fondo le proprie sensazioni. Talvolta smettere di fare qualsiasi cosa.

Sesso e volentieri? Cenette intime che preparano erotismi romantici? 

No, mi  dispiace, su questo sono di un pudore, di un’ipocrisia e di una reticenza quasi vittoriana. Dissolvenza in noir, please.

Giampaolo Simi, 1965. Italia. Scrittore, Giornalista pubblicista. Ha scritto Il buio sotto la candela, Direttissimi altrove, Figli del tramonto, L’occhio del rospo, Tutto o Nulla, Il corpo dell’Inglese. È tradotto in Francia nella Série Noire di Gallimard, e in Germania dalle edizioni Goldmann Verlag. (EM dal DizioNoir)