"Come siede solitaria

la città, è diventata

come una vedova

la signora delle genti".

Geremia, Lamentazioni 1,1

E poi, l'avevano riportato a casa.

Mi dispiace, aveva detto il luminare che avevano chiamato a consulto, se fossi al vostro posto, colonnello Petrillo, lo riporterei a casa, e aveva l'espressione imbarazzata di chi sopravvive ad una sconfitta, lui conosceva bene quell'espressione, l'aveva vista spesso, ultimamente. Persino nello sguardo del Duce, catturato da un implacabile fotografo tedesco mentre parte per la Germania, dopo i fatti di Campo Imperatore. Solo tre giorni prima, quando c'era ancora speranza, e la sentenza per Italo non era stata ancora pronunziata.

Stava fissando proprio quella foto, sulla prima pagina del "Messaggero" nell'anticamera della corsia in cui era ricoverato suo figlio, quando il medico s'era fermato davanti a lui e gli aveva parlato. Una malattia del sangue dal nome esotico e dolciastro, che gonfiava le ghiandole e rendeva il suo ragazzo debole come un gattino. Pensate solo a farlo stare contento per il tempo che gli resta, aveva detto il luminare, con feroce delicatezza, prima di congedarsi. Adesso, Eduardo Petrillo camminava stretto nell'impermeabile troppo leggero, era già così freddo e umido quel mese d'ottobre, disegnava un alone di brina attorno al cuore, ma non era solo per il tempo, certo. Quello atmosferico, almeno.

Ho saputo che sei stato molto coraggioso, all'ospedale, aveva detto ad Italo, scostandogli dalla fronte le ciocche di capelli madide di sudore, penso che questo meriti un bel regalo, anche per festeggiare il tuo ritorno a casa.

Non datevi pensiero, babbo, aveva mormorato suo figlio, socchiudendo gli occhi cerchiati, il vostro ritorno è già un regalo, per me e per la mamma.

Già, licenza a tempo indeterminato per gravi motivi familiari, poche righe che l'allontanavano dall'eventualità della propria morte (una possibilità alla quale pensava ogni tanto, con distacco, con un pizzico d'ironico fatalismo partenopeo) per sbattergli in faccia l'ineluttabilità di quella di suo figlio (alla quale non aveva pensato mai, perchè l'ordine naturale delle cose non concepisce che un ragazzo di diciassette anni muoia prima di suo padre. E d'un padre soldato in tempo di guerra, per soprammercato.)

Tua madre mi ha detto che quando avevi la febbre alta, il secondo giorno di ricovero, io non ero ancora arrivato, parlavi sempre della tua vecchia raccolta di figurine, di quella rara, che ti manca per completarla...

Ero piccolo, allora, l'aveva interrotto suo figlio, fissandolo attento, ma con una specie di sorriso vergognoso, tutti i miei compagni facevano quelle raccolte, ci scambiavamo i doppioni... Sì, anche adesso che non trasmettono più "I Quattro Moschettieri" e che non ci sono più le raccolte, ogni tanto ci penso...

Sì, anch'io, aveva mormorato, così piano che certamente Italo non l'aveva sentito.

Però mi piacerebbe finirla, aveva detto il ragazzo all'improvviso, anche se non serve più per prendere i premi... con questo male che ho posso solo stare a letto, a sfogliare libri, album, giornali. E a volte neppure questo, aveva pensato Eduardo con una stretta al cuore, e tra poco neppure questo.

Venerdì ci sono le bancarelle, a Piazza Giudìa, prima del tuo ritorno la mamma ci andava, ogni tanto, aveva detto suo figlio, vendono anche album e libri usati, sai ? Magari lì si trova ancora, quella figurina che mi manca...

Già, aveva pensato, il mercato nero degli ebrei del Ghetto era il più conveniente della città, e dopo il 28 settembre lo era diventato ancora di più, s'era visto persino qualche ufficiale tedesco aggirarsi tra le bancarelle dei robivecchi e dei librai.

Anche se di libri, nel vecchio Ghetto, dovevano essercene rimasti pochi ormai.

Si fermò per un momento, a metà del Ponte Fabricio, per guardare la cupola tronca della Sinagoga, dall'altra parte.

Raffaele Alianello, il suo amico Raffaele, che era venuto a trovarlo dopo aver saputo di Italo, gli aveva raccontato di quei due vagoni trainati da vetture tranviarie della Circolare Rossa: i Tedeschi erano arrivati al Ghetto coi facchini della ditta Otto e Rosoni e, in poche ore, avevano stipato sui carri-merci tutti i volumi della biblioteca della Comunità Ebraica romana e di quella del Collegio Rabbinico, destinazione monaco di Baviera.

Prima l'oro per Kappler, adesso tocca ai libri, aveva detto Raffaele, cupo, domani chissà?

E lui doveva saperne qualcosa, visto che lavorava per Theo Dannecker, l'esperto in "questioni ebraiche" mandato a Roma da Eichmann in persona Dopotutto, "domani" poteva non essere un generico domani...

In un angolo di Piazza Giudìa, proprio vicino alla porta del bar, quello che Eduardo ricordava gestito da un ariano del Testaccio, un uomo e una bambina stavano sistemando un panchetto per la loro mercanzia. C'erano libri, fascicoli, vecchie riviste in diverse lingue, mazzi di carte da gioco e, un po' incongruamente (ma fu proprio questo ad attirare là sua attenzione) quadranti d'orologio.­

Alcuni erano interi, altri senza lancette, oppure senza vetro.

Orologi grandi, da parete, o più piccoli, i quadranti ricavati da vecchie sveglie a molla, tutti muti, comunque, perché il meccanismo mancava, gli ingranaggi erano stati asportati, quelli erano solo gusci d'orologio, in fondo, spoglie d'orologio., la facciata silenziosa d'un tempo reso illusoriamente immobile.

Si chinò per esaminare un mazzo di carte, sembravano più antiche che vecchie, non ne aveva mai viste di quel tipo.

"Sono Tarocchi, signore" disse l'uomo dall'altra parte del panchetto, e per un attimo a Eduardo parve di vederlo riprodotto nell'immagine che stava guardando: un uomo pallido e allampanato, dall'espressione mesta, intento a sistemare degli oggetti su una tavola di legno.

“Quello é il Bagatto." aggiunse "La carta numero uno degli Arcani Maggiori. Nel mio paese la chiamano anche la carta del Mago."

“Servono per predire il futuro?" chiese Eduardo, posando la carta con cautela.

“Credete che sia possibile farlo?" domandò l'uomo, guardandolo con curiosa intensità.

Sembrava che tutta la sua forza fosse rimasta concentrata in quegli occhi grandi e distanti, d'un nero denso e morbido come velluto, che conferiva al suo sguardo inquisitivo un carattere più avvolgente che penetrante.

Potrei farlo, sì, con assoluta precisione per mio figlio, pensò Eduardo Ed anche per te, forse, povero Giudìo in difficoltà.

“Come ti chiami?" domandò invece alla bambina, che si teneva aggrappata alle falde della giacca dell'uomo. Poteva avere sette, otto anni, era magra, pallida, con grandi occhi scuri che ricordavano un po' quel=li del venditore, ma i suoi capelli erano d'una fiammeggiante tonalità di rosso.

Anche il tuo futuro, piccola, posso vederlo con certezza, pensò Eduardo rabbrividendo.

"Si chiama Chayim, Vita" rispose l'uomo "E' muta."

“Muta?"

Sì. Vita può udire, capisce tutto, ma non parla. E' così dalla fine di settembre, da quando i tedeschi sono venuti al Ghetto per la faccenda dei cinquanta chili d'oro. Ha preso uno spavento, e da allora non dice una sola parola. " L'uomo passò una mano tra i capelli della bambina. “Col tempo le passerà." disse piano, guardando le ciocche che scorrevano tra le sue dita, morbide, setose come lingue di fuoco. Eduardo si sorprese a fissare il quadrante senza lancette d'un grande orologio da parete, al centro del panchetto.

Non ci sarà più tempo, tra poco, pensò, nè per mio figlio, nè per tua figlia.

"Perché non la porti via dal Ghetto?" chiese, finalmente "Questo posto non va bene, per la tua bambina."

L'uomo s'appoggiò al muro, stringendosi nelle spalle.

"Noi veniamo da fuori, ci spostiamo spesso, ora siamo ospiti di brava gente caritatevole, qui al Portico d'Ottavia, e non abbiamo mezzi per andarcene, né sapremmo dove andare. Questa è la città del Papa, non ci toccheranno mai. " sorrise, un curioso sorriso appuntito, disincantato.

Così dice la gente del Ghetto, così dicono i Romani.

“La città é cambiata, adesso ci sono i Tedeschi. " replicò Eduardo. L'uomo gli lanciò un'occhiata indecifrabile.

"Siede solitaria e silenziosa come una vedova, la città, la signora delle genti " declamò alla fine, serio "E' l'attacco delle Lamentazioni del profeta Geremia, le avete mai lette?” chiese. Poi, raddrizzandosi, in tono leggero "Cercate qualcosa in particolare, signore ? Domani potreste non trovarla più." Eduardo gli lanciò un'occhiata interdetta.

“Viene tanta gente al Portico d'Ottavia, per comprare." aggiunse l'uomo, sorridendo "Domani è sabato, il terzo giorno di Succòt, la festa delle Capanne. Doppia festa, domani. Domani siamo chiusi.”

Eduardo riprese in mano il mazzo dei Tarocchi, senza guardare fece scorrere un dito sul taglio dei cartoncini, che gli sembrò molto più morbido di quanto non dovesse aspettarsi.

"Cerco delle figurine. Figurine da collezione, sapete, quelle delle raccolte Buitoni-Perugina, che andavano tanto di moda fino a sette, otto anni fa..."

Le labbra sottili dell'uomo s'arcuarono in un sorriso, mentre abbassava lo sguardo sul mazzo che Eduardo stava stringendo.

"Sono lì, le avete in mano." disse.

Eduardo guardò e, con un sussulto, s'accorse che non era la carta del Bagatto, la carta del Mago, quella che stava guardando, ma l'elegante "silhouette" dell'Arlecchino disegnato da Angelo Bioletto.

Sollevò il viso, ma il venditore non lo guardava, era intento ad allacciare una scarpa alla bambina muta.

Fece scorrere il mazzo delle figurine, alcune ne riconobbe, altre no: c'era Aramis, naturalmente, più simile ad un gagà petroliniano che ad un severo gesuita, e poi l'Abate Faria, col segno d'una punzonatura sul petto (che gli ricordò in modo alquanto sinistro il segno che gli Ebrei erano costretti a portare cucito sugli abiti), e poi la Bella Sulamita e il Ciambellano, Ulisse il Furbacchione e persino la divina Greta, stilizzata in un sinuoso nastro di celluloide sormontato dal suo profilo che sbocciava dal colletto candido, lo stesso che aveva indossato nella 'Regina Cristina'.

“Come avete fatto?" domandò, e la sua voce gli suonò strozzata, estranea. "Un trucco? Un gioco di prestigio?" L'uomo si rialzò, allargò le mani.

“Io vendo, io compro, tanta gente si disfa per poco delle cose che non servono più." accennò coi mento al mazzo delle figurine "Quelle, in tempi come questi che stiamo attraversando, servono davvero a poco." concluse, elusivo.

Potrebbero servire a dare un po' di gioia a mio figlio, pensò Eduardo.

“Mio figlio" mormorò "Mio figlio Italo vorrebbe completare la sua collezione. Gliene manca solo una."

La bambina coi capelli rossi tirò la giacca del venditore, che le sorrise.

“Sì, anche Vita ha capito qual è la figurina che cercate: quella introvabile, quella col guerriero saraceno..."

"Il Feroce Saladino."

“E quella è la figurina che manca a vostro figlio per chiudere la sua raccolta." ripeté l'altro.

Eduardo rabbrividì cogliendo l'involontaria (quanto involontaria?)  allusione contenuta nella parole dell'uomo singolare che aveva davanti. Un prestigiatore, probabilmente, un saltimbanco girovago esperto in trucchi come quello che aveva appena subito. Ma lui non poteva leggere i suoi pensieri, no, non poteva leggere nel suo cuore.

“Il Saladino non é tra le figurine che avete in mano." riprese il venditore "Ma ne ho un esemplare perfetto a casa, in valigia.

Capite, é troppo preziosa perché la porti in giro con le altre, é un pezzo per intenditori. E, d'altro canto, voi siete il primo, in molti mesi, a voler acquistare qualcuna di quelle figurine." aggiunse.

“Vorrei averla al più presto, se non vi dispiace. "

L'uomo gli prese dalle mani il mazzo disegnato, sfiorandolo, ed Eduardo s'accorse che le sue dita lunghe e ossute (dita da prestigiatore, sì) avevano un tocco gelido,

“Circolano parecchie storie su quella figurina, sapete?" disse lentamente il venditore "Quando ancora trasmettevano alla radio 'I Quattro Moschettieri' di Nizza e Morbelli, e tutti impazzivano per quelle collezioni, si diceva che fosse stata stampata in un numero limitatissimo di copie, che, per un errore di distribuzione, la si potesse trovare solo in Sardegna, che, addirittura, portasse prosperità e salute a chi la trovava, e non solo perché permetteva di completare la raccolta e ritirare un premio."

“Prosperità e... salute?”

"Alcuni la tenevano nella stessa considerazione di quelli che voi Cristiani chiamate... santini, si." rispose l'uomo con uno sguardo stranamente allusivo "O che molti altri definirebbero un talismano."

Eduardo taceva.

E se fosse vero, se fosse davvero un talismano in grado di portare prosperità e salute, pensò febbrilmente, guardando i quadranti candidi degli orologi sventrati, dodici, come le ore che separavano quel momento sospeso dall'alba del giorno successivo. Domani.

Il domani cui aveva alluso il suo amico Raffaele, sabato 16 ottobre 1943, il terzo giorno di Succòt, la festa delle Capanne, come aveva detto il venditore.

"Quando potete darmi la figurina?" chiese.

“Potrei portarvela stasera, dopo il tramonto. Abitate lontano?"

“Dietro Piazza Mazzini, a dodici fermate da qui, se prendete la Circolare Rossa. Un po' meno di un'ora, e potrete tornare a casa in tempo, prima che cessino le corse e cominci il coprifuoco." Lo guardò "Quella figurina é molto importante per me, per mio figlio. Vi pagherò bene."

“Scrivete qui il vostro indirizzo. Avrete il Feroce Saladino stasera.”

Eduardo scarabocchiò il suo indirizzo sul bordo d'un fascicoletto variopinto, una rivista di trame cinematografiche popolare fino a qualche anno prima.

L'uomo lesse l'indirizzo, gli lanciò una lunga occhiata.

“La mia gente ha un detto, sapete "

“Quale... detto ? "

“Chi salva una vita salva il mondo intero, "

Mentre una folata di vento gelido spazzava la Piazza Giudìa e cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia, Eduardo si sorprese a pensare che, forse, quell'uomo strano stava parlando proprio di suo figlio.

Quando il campanello di casa Petrillo suonò, alle dieci di sera, la pioggia cadeva fitta sui viali alberati del quartiere.

“E' l'uomo delle figurine." disse Eduardo a sua moglie, intenta à sparecchiare "Va' ad avvertire Italo che é arrivato il suo regalo."

Aprì la porta, ma sulle prime gli parve che il ballatoio fosse deserto, poi il suo sguardo s'abbassò, e vide la bambina coi capelli rossi, la figlia dell'ebreo, ritta sulla soglia.

“Sei tu." le disse, sorridendo "Dov'é tuo padre?"

La bambina aveva in mano un grande ombrello fradicio di pioggia e una scatola sottobraccio, legata con uno spago. Anche le sue scarpe erano inzuppate.

"Sei tutta bagnata, prenderai freddo, vieni dentro." disse Eduardo, facendole cenno d'entrare.­

La bambina si liberò dell'ombrello, lasciandolo appeso al pomolo della porta, fuori, e s'incamminò oltre la soglia, nel tepore dell'appartamento illuminato.

Tirò fuori dalla scatola una busta bianca.

Eduardo la prese e l'aprì.

La figurina rara, protetta da una custodia trasparente, gli scivolò in mano.

Il Saladino, nella sua livrea verde, campeggiava fiero, la scimitarra ricurva con la punta rivolta al suolo in una mano e lo scudo rotondo nell'altra, e scrutava un punto imprecisato a destra, al di là del suo sottile orizzonte di carta.

Vita si tolse un biglietto spiegazzato dalla tasca e lo tese a Eduardo seria.

Lui lo prese, lesse le poche righe che una mano esitante, poco abituata al corsivo (o forse all'uso della penna, più in generale), vi aveva tracciato.

"Non posso venire da voi. Un impegno mi trattiene al Portico d'Ottavia. Vita sarà a casa vostra con l'ultima corsa della Circolare, vi prego di tenerla lì per questa notte. Sono certo che la figurina porterà fortuna a voi e a vostro figlio.

Il vero Saladino era crudele, ma, come Azrael, l'Angelo della Morte, anche capace di qualche gesto di clemenza."

Il biglietto non era firmato, a meno che non si volesse leggere come una firma la breve successione di caratteri separati - questi sì, tracciati con elegante sicurezza - probabilmente lettere dell'alfabeto ebraico.

"Vieni, per questa notte rimarrai da noi." mormorò, spingendo la bambina nella stanza dove Italo li stava aspettando.

"Guarda, Italo, il tuo regalo." disse, sedendosi sul letto, e porgendo a suo figlio la figurina rara.

La bambina appoggiò le mani sulla coperta, poi prese la destra abbandonata del ragazzo, che girò la testa dalla sua parte, sorridendole debolmente.

"Tu devi essere Vita, il babbo mi ha parlato di te."

Per un istante (che gli parve incredibilmente lungo), a Eduardo Petrillo sembrò che suo figlio fosse meno pallido e stanco, che la sua voce fosse meno flebile, e che un delicato rossore si stesse diffondendo di nuovo lungo le sue guance smagrite, come se il contatto con la mano della bambina (o con la liscia superficie della figurina rara?) gli stesse infondendo un po' di forza.

"Dov'è tuo padre?" chiese ancora il ragazzo, puntellandosi su un gomito, per mettersi a sedere.

Non gli ho detto che è muta, pensò Eduardo, con uno sguardo affettuoso, ora gli spiegherò cosa le é successo.

"Non é mio padre," disse la bambina con una voce scura e precisa, da donna adulta "anche se lui é parte di me e io sono parte di lui. Lui è Azrael, ed é rimasto al vecchio Ghetto: ha molto da fare lì, domattina presto."