L’AIDS della creatività che ha colpito la nostra cultura è un’epidemia diffusa in tutti i continenti dell’espressione artistica, trasversale a tutte le letterature. Dalla poesia al giallo, dal romanzo mainstream al noir, al thriller e all’horror, tutte le nostre scritture ne risultano contagiate e sofferenti di una immunodeficienza che riduce sensibilmente le nostre attese di eternità.

   Non starò a enumerare le possibili cause di questo stato di cose. E neppure spiegherò le ragioni che mi hanno condotta a schierarmi dalla parte delle letterature basse innalzate (dove, dopo tutto, ci si sbatte e si sanguina di sangue proprio, non solo di vittime assassinate immaginarie) piuttosto che delle letterature alte abbassate. Mi limito a trasmettere poche suggestioni e osservazioni nate dalla mia esperienza di essere umano e di scrittrice professionista, o di essere umano che una volta ha sognato di fare lo scrittore.

   Ci troviamo a vivere e soffrire, in Occidente, un clima artistico unico, che non si è mai verificato nella storia, neppure durante il Barocco, al quale spesso il nostro tempo viene paragonato. Le librerie rigurgitano di libri bruciati in una stagione, come le canzoni; ci siamo fatalmente trasformati in un popolo di artisti: chi non è analfabeta è scrittore. Siamo tutti artisti per un periodo della vita, per trent’anni, un anno, un giorno, un minuto e mezzo; e abbiamo un pubblico, sia pure composto da trentamila o dieci persone, una persona sola (fidanzata o cognato) o se stessi. Un frammento di genialità, presto o tardi, è toccato a ciascuno. Tutti sappiamo scrivere: leggendo i testi in esame presso le case editrici con cui collaboro mi rendo conto che spesso la differenza tra il pubblicato e il non pubblicato è difficilmente quantificabile, impalpabile. E, anche fra gli scrittori pubblicati, sembra che la visibilità, il successo commerciale, il conferimento dell’agognato status di autore siano frutto di casualità, capricci, azzardi che stupiscono gli stessi giocatori.

   Ormai non conto più il numero dei miei conoscenti che girano con carte d’identità che riportano professioni artistiche mai effettivamente svolte. Non conto più quelli fra loro convinti che fra mezzo secolo verranno “scoperti”. Non voglio contare (e nemmeno più vedere) quelli che si atteggiano a questo o quel grande personaggio letterario del passato senza saperlo. Mi dispero nell’assistere alla tragedia normale di esistenze interamente alienate, dissipate nel mito di una poesia maledetta, in una società che non ci maledice più. Ho assistito a incontri con scrittori professionisti senza pubblico, e a letture pubbliche di poesie in cui esisteva un pubblico soltanto perché ogni partecipante era poeta. Siamo tutti scrittori e nessuno è pubblico, allo stesso modo in cui siamo tutti personaggi televisivi, tutti dentro il televisore, e nessuno è fuori, o accetta di rimanerne fuori. Ma, se siamo tutti dentro il televisore e dentro la scrittura, e nessuno vuole guardarci o leggerci, cessiamo di esistere.  

   Ci hanno derubato (ci siamo derubati) della poesia, della gloria del poeta, delle condizioni storiche e sociali che rendevano possibile il carisma del poeta: e l’alloro che cingeva la fronte del poeta, oggi ci permettono di usarlo solo in cucina, per insaporire i cibi. Se siamo stati derubati dei nostri destini, se siamo polvere creativa sparsa, sabbia di un deserto culturale in cui tutti, letterati delle ex letterature alte e basse, ci confondiamo, allora non possiamo arrogare una superiorità intellettuale derivata dalla pratica di un’esperienza letteraria piuttosto che di altre.

   Non possiamo sapere che cosa verrà dopo il noir e il thriller, ma di una cosa sono sicura: se vogliamo proseguire questo viaggio verso l’ignoto che è la ricreazione della realtà, dobbiamo attraversarli, non scavalcarli.

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