È opinione diffusa tra coloro che si sono convinti di trattare “letteratura” che la figura dell’Eroe sia un retaggio di epoche passate, un modello infantile se non proprio reazionario e che qualsiasi proposta, anche nell’ambito di produzioni popolari dichiaratamente d’evasione, vada implacabilmente cassata da questi ingombranti personaggi. Due esempi valgano per tutti.

Anni fa mi fu commissionato da un editore “intellettuale” un romanzo salgariano (sic!) che però, alla fine fu rifiutato perché il protagonista era un «personaggio troppo volitivo, deciso, quasi maschilista» mentre invece nelle intenzioni del suddetto editor (desiderata rimasti sino ad allora ignote a me) doveva essere più carico di dubbi, di introspezioni, quasi un protagonista romantico decadente. Mi tenni i diritti del mio romanzo.

Più recentemente facendo visita a una collega che si dedica più che altro a traduzioni di memoir e negli anni, mi pare, aver perso quel genuino entusiasmo per la narrativa pulp che pure un tempo lo animava, portai ingenuamente in omaggio alcune copie degli ultimi Professionista, credendo di far cosa gradita. Ammetto che sentirmi dire: «Sai... a me questi personaggi troppo super eroi non interessano più» al di là dell’evidente scortesia, mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca.

Però resto fermamente convinto che l’Eroe sia un punto fermo della narrativa popolare e, per quanto si voglia girare la frittata, non sia possibile farne a meno.

          

L’Eroe (o anche l’Anti Eroe che è poi una versione meno legata ai valori comuni e può essere anche negativo, o magari inizialmente riottoso) è sempre necessario. E non è neppure obbligatorio che sia “maschio”. Ci sono moltissime eroine femminili (Satanik in testa, che vi piaccia o meno fu al tempo stesso tempesta ormonale per i giovani lettori e simbolo di riscossa e libertà di scelte per le lettrici) anche nel campo del romance e dell’erotico che oggi vanno così di moda, che cambiano semplicemente prospettiva, ma si adeguano a un modello archetipo della cultura popolare che è e resta indispensabile.

Perché il Cavaliere Oscuro, James Bond, Diabolik, Tex, Sandokan, Wolverine, SAS Malko Linge, Largo Winch, Corto Maltese, lo Sconosciuto, Conan, Parker e sì, ammettiamolo, anche il Professionista, nel tempo reggono e fidelizzano il pubblico mentre altri personaggi pur sostenuti da forti campagne pubblicitarie finiscono nel dimenticatoio? Ho citato una varietà di personaggi che spaziano del thriller all’avventura, persino a quell’universo fantastico che è popolato dai super eroi proprio perché in tutti c’è un comune denominatore. Sono Eroi, sono modelli. Non persone vere anche se, con il tempo, l’appassionato finisce un po’ per considerarli tali. Li reputa amici, di quelli che, al contrario di quanto avviene nella vita di ogni giorno, non ti tradiscono mai, non cercheranno mai di fregarti il posto di lavoro o sedurti la fidanzata.

Una fantasia ingenua e consolatoria? Forse, ma la narrativa popolare questo è. Evasione. Una trasfigurazione della realtà che mantiene un legame di empatia con chi legge esaltandone le aspirazioni ma se ne distacca. «Il superuomo di massa» come diceva Eco in un saggio che tutti coloro che scrivono dovrebbero leggere (o rileggere) di tanto in tanto. L’eroe è solo. È l’amico, il padre, il fratello, l’altro se stesso rispetto al lettore. Dichiaratamente fa e dice cose non sempre possibili nel nostro mondo. Ci regala l’illusione che sia possibile non chinare la testa. Forse proprio con quelle fantasticherie a volte è un modello e non una fuga di fronte a difficoltà reali. Non voglio dire che debba insegnare qualcosa. Però è sempre lì, l’immagine di un personaggio che reagisce, che di fronte alle difficoltà rifiuta di arrendersi, di scendere a compromessi. E più la vita reale ci schiaccia con ben altre difficoltà, spesso insormontabili, più la fantasia è lì, per darti quel sollievo che magari dura solo poche pagine ma che, a ben guardare, è indispensabile per tornare in strada e, nel nostro piccolo, essere eroi di quel quotidiano che non impone ammazzamenti o grandi gesta ma forse, un po’ di coraggio e spirito di iniziativa, nelle piccole cose, lo esige davvero.

L’Eroe è solo, dicevamo. Certamente nella seconda metà del secolo scorso si è sviluppato nei pulp rispecchiandosi nell’immagine del reduce. Il soldato che tornato in patria vede misconosciuti i momenti terribili che ha vissuto e fatica ad adattarsi alle regole. Se Rambo divenne, per una certa critica politicizzata, l’emblema di un superomismo a stelle e strisce ingombrante e fastidioso, Philip Marlowe e ancor più Mike Hammer ne erano stati i modelli. Resta l’animo guerriero anche se la vita civile è una giungla peggiore di quelle vietnamite o indocinesi. L’eroe ritorna, pur con tutte le sue caratteristiche a volte discutibili come nel caso del Punitore (nella versione di Ennis) ad affrontare la burocrazia, la prepotenza, il sopruso con la convinzione di dovercela fare da solo. Io credo sia un po’ questo il segreto del successo di tanti personaggi di questo tipo. La capacità di reazione, di fare le cose mentre gli altri ne parlano e basta o, peggio, si rassegnano trastullandosi nell’autocompatimento che altro non è che una giustificazione (non valida) per l’ignavia. Ma l’Eroe non è mai completamente solo. Altri sono come lui. Lo scopre sempre. E la rivelazione è catartica per il lettore quanto quella del giovane “nerd” dileggiato dai compagni perché raccoglie fumetti, quando scopre di non essere solo. Che altri condividono le sue passioni. È pari alla soddisfazione che il narratore ricava dal contatto con il lettore, con il quale, spesso, si trova a condividere gusti e aspirazione. E visto che la narrativa è sempre una trasfigurazione della realtà e mai una sua riproposta pedissequa permettetemi di citare tre esempi chiarificatori. Si tratta di film e non di libri o fumetti, ma poco importa perché come sappiamo sono mezzi legati uno all’altro. Mi vengono alla mente questi esempi perché forse sono i più noti ma sia nei fumetti che neri romanzi se ne trovano altrettanti.

     

In una delle scene finali di Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah la banda di rozzi delinquenti, uomini alla deriva capeggiati da Bishop ed Engstorm decidono di farla finita. Per quanto cinici non possono lasciare il loro più giovane e meno inserito nella banda compagno Angel nelle mani del generale Mapache. Andarlo a liberare è un gesto suicida, forse catartico per i due vecchi avventurieri troppo stanchi. Cercano “la bella morte” come si diceva, ma la scena in cui ai due si accostano anche i fratelli Gorch che per il giovane Angel non nutrivano grande simpatia è forse una delle più coinvolgenti mai viste sullo schermo. E poco importa se, nella meschinità delle vicende umane, le cose non sarebbero andate così. Così vogliamo vederle. Esattamente come ci colpisce al termine di Avengers quando Iron Man, sventata la minaccia dell’invasione aliena precipita, quasi senza speranza... e viene salvato da Hulk che si esibisce in un tuffo che leva realmente il respiro, non solo per la spettacolarità.

Personaggi più differenti non si potrebbero immaginare, eppure il senso del film e il segreto del suo successo sta tutto lì. E non mi dite che non vi siete lasciati coinvolgere in Skyfall quando in soccorso di M, sola, osteggiata dai suoi stessi capi, non solo accorre 007 ma tutta la “famiglia” del servizio entra in azione da Tanner, a Mallory, sino ad allora quasi antipatico e anche Moneypenny. L’unico veramente solo è Silva, accecato dal rancore. Escluso da qualsiasi vincolo affettivo.

Se vogliamo riesumare un’immagine classica sia al cinema che nei romanzi quel “Tutti per uno, uno per tutti” dei Tre Moschettieri riassume nell’incrociarsi di spade simbolo di animi guerrieri tutta la simbologia dell’amicizia virile che è alla base della narrativa eroica. Di fronte a questo concetto, sempre vincente nel cuore del pubblico, emerge la considerazione che nella vita vera l’amicizia (e fors’anche l’amore...) restano concetti ideali, cui si tende ma che, purtroppo, spesso restano disattesi. L’amicizia virile (o anche femminile) è un’aspirazione, quasi mai una realtà. Ma il pulp ha la sua ragion d’essere anche nel non farci cadere nel pessimismo assoluto, nella negazione dei nostri sogni di bambini. E, di fronte a questo ragionamento, ogni tentativo (e spessissimo è usato come arma di dileggio proprio da quei finti intellettuali che predicano l’uguaglianza dei diritti e la correttezza politica) di trasformare l’amicizia virile in criptomossessualità.

Tex e Carson, Batman e Robin, Capitan America e Bucky, persino Sandokan e Yanez... che sesquipedale stupidaggine cercare di sminuire il mito del legame virile con ombre che, nella mente del critico, possono gettare il ridicolo su leggende scolpite nell’animo del lettore. Perché l’arma più usata per chi ha in odio il pulp e la sua mitologia è proprio il dileggio, la presa in giro, il gusto infantile e “cattivo” di distruggere l’entusiasmo... degli altri bambini. Perché, alla fine, è un po’ così. Bambini esclusi che cercano di rovinare la festa agli altri, definendoli dei nerd... ma è un’arma spuntata. E l’eroe mantiene il suo ruolo di simbolo, di personaggi immediatamente identificabile come modello anche nell’ultimo Wolverine.

Persino il mito dell’invulnerabilità vissuta come maledizione nel mondo della fantasia, risulta irrinunciabile. Wolverine deve continuare a essere un guerriero immortale, al di là di ogni credibilità o verosimiglianza o psicanalisi da quattro soldi dell’establishment culturale piagnone e vittimista che esalta non tanto i falliti quanto i disillusi gli autopuniti come esempi di comportamento per meglio poterli controllare... come diceva un bellissimo saggio sul Giappone feudale e lo spirito dei samurai di Ivan Morris: La nobiltà della sconfitta.

Watchmen è l’epopea del fallimento dei super eroi e della loro presa di coscienza... ma anche della loro rivalsa. L’Eroe cade ma risorge. Combatte ferito. Questa è la sua natura. Una natura che nasce dalla fantasia che, sino a prova contraria, è uno di quei doni che ci rendono umani. Forse non “migliori”, ma umani. Così diventa una soddisfazione anche per il narratore mettere i suoi eroi in queste situazioni.

        

Chi di voi mi segue forse rammenta un momento particolare del romanzo Nero criminale, episodio fuoriserie del Professionista. La Bimba è stata rapita, la squadra, il Prof per primo è in preda all’angoscia. Suona il campanello e arriva la persona meno attesa, quella che, per ragioni varie, con la Bimba avrebbe meno a che fare. Antonia Lake. Basta nominarla per evocare il fuoco, la distruzione, quella carica di aggressività che subito dà alla squadra, all’eroe stesso e al lettore la speranza che una via di fuga, un riscatto sia sempre possibile. Questa è la narrativa popolare. La capacità di smuoverti dentro qualcosa con una serie di semplici accadimenti, inverosimili avventure e personaggi larger than life. Una capacità (di creare e di apprezzare) che ce l’hai o non ce l’ hai. Che nessun manuale di scrittura, nessun programma informatico, nessun talent show ti potrà mai dare se non lo hai dentro di te.

Se non lo possedete, fatevene una ragione. Se invece comprendete ciò che ho cercato di dirvi, se mi ascoltate... allora siete nella Resistenza.