Anche noi italiani abbiamo una fenomenale storia d’assedio risalente alla Seconda guerra mondiale, e come le altre cinematografie abbiamo tentato di farne un film d’assedio. Senza però riuscirci. Malgrado il periodo bellico e la consequenziale ovvia esaltazione dei valori militareschi, l’epica italiana fallisce nel raccontare una storia d’assedio che aveva grandi potenzialità. E questo al di là del confronto con i film girati parallelamente dall’altra parte del mondo.

Negli stabilimenti Scalera di Roma del 1942 il regista Goffredo Alessandrini ricrea efficacemente l’avamposto italiano di Giarabub nella Cirenaica del 1940: il teatro di un film che aveva i numeri (ma evidentemente non le qualità) per rappresentare la versione italiana dei grandi film d’assedio stranieri.

          

Italiana sin dal 1926, l’oasi libica di Giarabub ha poca acqua e per di più indigesta per gli stranieri. È nel centro del territorio occupato dalla confraternita religiosa dei senussi, il cui fondatore Muhammad ibn Ali al-Sanusi è sepolto in una moschea fortificata di Giarabub, dov’è morto nel 1860. A capo della divisione italiana di 1.300 soldati - più circa 750 libici - è il maggiore Salvatore Castagna, arrivato da neanche tre mesi quando il 10 giugno 1940 le ostilità portano gli inglesi ad assediare la zona. Dopo alcuni mesi ogni comunicazione è esclusa ed ogni rifornimento impedito, così come ogni altro avamposto italiano della zona è caduto: fino alla resa del 21 marzo 1941 Castagna si ritrova a presidiare non solamente un pugno di sabbia nel deserto, bensì l’ultimo simbolo del valore militare italiano.

Quando nel 1942 viene girato il film di Goffredo Alessandrini, l’esercito di sceneggiatori (Oreste Biancoli, Alberto Consiglio, Gherardo Gherardi, Gian Gaspare Napolitano e Carlo Vergani, su soggetto di Asvero Gravelli) ha a disposizione del materiale di primissima qualità. Chi sta seguendo questo speciale avrà notato che tutti i film d’assedio di questo periodo hanno in comune una tomba fortificata in un’oasi desertica, che fa da riparo al manipolo di soldati assediati. Gli sceneggiatori hanno questa tomba, hanno la carenza d’acqua e di cibo (con tutti i problemi sul morale dei soldati), hanno il caldo micidiale, la carenza di munizioni, un nemico soverchiante e l’epica di essere l’ultimo baluardo di un’intera nazione. È davvero impossibile sbagliare un film con questi elementi: invece ci si riesce benissimo.

Giarabub è una pellicola priva di retorica e di propaganda politica, come invece ci si potrebbe aspettare da un instant war movie di regime (come quelli statunitensi, grondanti patriottismo spicciolo), ma è anche privo di emozioni: ciò che provano i soldati ad essere imprigionati nel deserto è completamente taciuto, ed anzi l’assedio stesso è assolutamente lasciato in disparte. Se non sapessimo che Giarabub è una storia d’assedio non lo si capirebbe dalla sceneggiatura.

Malgrado gli attori siano tutti di primissima qualità, i loro personaggi sono piatti e inespressivi: manca cibo ed acqua ma li si vede spesso al bar a bere; mancano munizioni ma li si vede sparare; è un assedio mortale ma non viene mai citata la morte. L’unico sentimentalismo è relegato ad un soldato che va a piangere da solo sulla tomba del figlio morto: qualsiasi altra emozione al di fuori di questa singola (e sin troppo didascalica) sequenza è bandita.

Eppure il protagonista Carlo Ninchi, che interpreta Salvatore Castagna, è infinitamente più bravo di qualsiasi coeataneo Bogart; la situazione italiana non ha nulla da invidiare ai grandi film d’assedio coetanei - come Sangue sulla sabbia e il remake Sahara, o anche Bataan - eppure manca il bersaglio. È una storia d’assedio senza assedio, è una storia epica senza epica, e la scelta di troncare il film prima della resa, lasciando intendere che i soldati stiano andando a morire, toglie paradossalmente empatia.

            

«Colonnello, non voglio il pane, / dammi il piombo del mio moschetto! / C’è la terra del mio sacchetto / che per oggi mi basterà. // Colonnello, non voglio l’acqua, / dammi il fuoco distruggitore! / Con il sangue di questo cuore / la mia sete si spegnerà.»

Tema ricorrente del film è ovviamente La sagra di Giarabub, con i testi di Alberto Simeoni e Ferrante Alvaro De Torres e musica di Mario Ruccione. Quest’ultimo era uno dei musicisti più popolari del periodo fascista (è anche l’autore di Faccetta nera) sebbene poi cercherà di prenderne le distanze una volta diventato compositore di premiate canzoni di Sanremo.

«Colonnello, non voglio encomi / sono morto per la mia terra / ma la fine dell’Inghilterra / incomincia da Giarabub!»

Nel 2011 questa canzone è protagonista dell’episodio 11x05 del telefilm Distretto di polizia. Una donna stuprata ricorda che durante la violenza al suo aggressore è squillato il cellulare: una volta ripresasi, la donna riconosce nella suoneria proprio La sagra di Giarabub. Esce fuori che lo stupratore seriale ha un passato di violenza subita da dei giovani, che lo trascinavano in un fortino da loro costruito e da intitolato proprio a Giarabub.

Lo stesso nome che ancora oggi indica il quartiere più isolato della Cecchignola, la città militare di Roma.

            

Chiudiamo con un estratto da La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) di Umberto Eco. «Mentre leggevo era capitata sul piatto del giradischi una canzone bellissima. Raccontava l’ultima resistenza di un nostro caposaldo nel deserto, Giarabub, e la vicenda di quegli assediati, alla fine vinti per fame e mancanza di munizioni, assurgeva a dimensioni epiche. Avevo visto qualche settimana prima alla televisione, a Milano, un film a colori sulla resistenza di Davy Crockett e Jim Bowie nel fortino di Alamo. Nulla è più esaltante del topos del fortino assediato. Immagino di aver cantato quell’elegia triste con l’emozione di un ragazzo che segua oggi un film del West.»

Seguendo il discorso di Eco, è tempo di abbandonare i deserti sahariani e le giungle asiatiche, è tempo di abbandonare il filone bellico perché il tema dell’assedio epico sta per esplodere nel lontano West. E per capirlo appieno, dobbiamo iniziare a percorrere una particolare strada: quella su cui viaggia una prostituta...