1

Tornare in un posto, dopo tanti anni. In un posto in cui c’eri e insieme non c’eri. Che hai respirato attraverso altri polmoni, visto attraverso altri occhi.

Percorrere quel corridoio come se fosse la prima volta, sotto il ghigno distorto delle piastrelle spezzate, la cenere opaca che ti si appiccica alla pelle del trench.

Entrare in un posto, pensando di non farlo, ma sapendo che lo farai.

Sfiorare quel velluto, esitante... quel velluto che qualcuno aveva toccato, e che ora sei tu a toccare.

Le sue mani.

Le tue mani.

I tuoi guanti neri che scivolano sulla tenda color fuoco.

Come un sipario aperto su una nuova vita.

E su una nuova morte.

Ti blocchi per un istante.

Sei una bestia incattivita e in calore. Una bestia che ansima, ansima...

Scosti con un sussulto le tende pesanti e quello che vedi... oh, quello che vedi è uno spettacolo antico e fiammeggiante, che ti aggredisce le viscere e le fa vibrare.

Tornare in un posto e risentirne le voci, gli odori, e quella metallica sinfonia di morte che si leva in un sibilo e cresce, cresce, cresce... Ti percuote i tendini, alimenta i tuoi pensieri. E ti ritrovi a vagare ansimando per quelle poltrone con una smania cieca che ti brucia dentro...

Non sai se è rabbia o passione, o entrambe le cose, ma sai soltanto che la musica continua, in un crescendo ipnotico, mentre quella voragine scarlatta ti eccita e infine ti inghiotte, vorace, e tu precipiti piano nel rosso, in tutto quel...

... bianco come il corridoio che le fluttua davanti, un sottile nastro d’ovatta senza fine, e lei avanza e avanza... finché non la sente arrivare. Dapprima flebile e soffocata, poi sempre più vicina, quella sinfonia tagliente le rotola davanti come una sfera in un labirinto.

Indietreggia, spaurita, ma ora la sfera è alle sue spalle... e le tocca correre, correre senza fermarsi, con quella musica ossessiva che le lacera il cervello, e il corridoio ondeggia e ruota su se stesso e si capovolge in un sordido frullato biancastro, e lei urla, urla, urla!

E la musica aumenta e le penetra nelle ossa, e gliele fa vibrare... poi tutto si sgretola ed esplode, e infine scompare.

Nel vuoto.

Che è la prima cosa che lei vede quando riapre gli occhi.

[...]

2

Il professor Rosselli non amava ricevere gli studenti in università. Chi gli voleva parlare doveva recarsi direttamente a casa sua, l’elegante villa precollinare situata in corso Casale, sul lungo Po. Doveva prendere con lui l’aperitivo, ammirare i suoi cimeli e augurarsi di entrare nelle sue grazie. Non aveva ancora cinquant’anni ed era già pieno di manie.

Susanna scosse il capo. Si domandò come sarebbe stata lei a cinquant’anni. Senza dubbio disoccupata, se non la piantava con quella vita da eterna studentessa fuori corso, costretta a lavori improbabili e sottopagati. Se poi si aggiungeva quella dannata malattia del sonno che era subentrata da un po’ di tempo, non aveva proprio argomenti per ribattere sulle manie del professor Rosselli.

Suonò il campanello.

Nessuno le chiese chi era, ma il cancello si aprì con uno scatto secco. Il giardino sembrava una foresta pluviale uscita dalle pagine di un libro salgariano: palmizi, banani e numerose altre piante tropicali dalle escrescenze aggressive e dai fiori carnosi crescevano ovunque. Gocce umide e grasse imperlavano le foglie lucide, verdissime, amplificando gli odori sensuali del sottobosco. Sentì l’acqua intriderle la camicetta, colarle sul viso. Si domandò come potesse mettersi a piovere così all’improvviso, e con un sole simile, poi notò con disappunto che tra la vegetazione erano piazzati numerosi idranti a simulare un acquazzone costante.

Si affrettò a entrare nella villa.

Ad attenderla non c’era nessuno. Solo un’accozzaglia di statuette orientali, di gri-gri africani e oggetti sconosciuti e dall’aspetto pericoloso. Una collezione di fucili d’inizio secolo era appesa alle pareti e in un angolo baluginava una serie di lucenti scimitarre. Un leone pulcioso e dai canini appuntiti era disteso nell’atrio.