– Architetto, non corriamo troppo, sono già contenta così, – fu la cauta e apparentemente umile risposta della giovane, che però dentro di sé non poté fare a meno di pensare: “A caval donato non si guarda in bocca, se poi c’è sotto qualcos’altro, si vedrà, caro Osvaldo”.

Nei due anni trascorsi allo studio, Mariangela se la cavò molto bene, imparando in fretta e interpretando con sempre maggior sicurezza il compito affidatole. E vennero pure un paio dei promessi aumenti, più l’inatteso regalo, da parte del Verga, dell’iscrizione alla scuola guida per il conseguimento della patente, ottenuta al primo tentativo.

Non essendosi però ancora comprata l’auto, Mariangela, pur con la sua patente in borsetta, arrivò a piedi davanti al portone d’ingresso del palazzo dove aveva sede lo studio, annunciato da una targa che recitava, un po’ velleitariamente: “Le Idee – Studio di pubblicità – Le nostre idee per i vostri successi”. Salutato il sussiegoso portiere, elegante nella sua divisa con tanto di alamari completata da un degno copricapo, la ragazza raggiunse lo studio, al primo piano, preparandosi ad aprire con le sue chiavi personali, visto che a quell’ora probabilmente dentro non c’era ancora nessuno. Infatti, tutte le stanze erano vuote, tranne quella di Osvaldo Verga, la cui porta era spalancata, rivelando un marasma di fogli e oggetti sparsi qua e là, certamente provenienti dai cassetti, anch’essi in terra, completamente svuotati. Seduto alla scrivania, piegato in avanti quasi stesse dormendo, stava il corpo del titolare dello studio. Un esame più approfondito avrebbe rivelato, in corrispondenza della tempia sinistra, un vistoso squarcio con sangue ormai coagulato, che imbrattava anche il petto e le maniche della camicia. Mariangela toccò leggermente la spalla dell’uomo, ma non ottenne alcuna reazione e, accortasi del mare di sangue, cacciò un urlo terrificante, uscì e si precipitò giù dalle scale per raggiungere la portineria. Osvaldo Verga era morto.

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