Alcune giovani donne, tutte affette da un difetto fisico, vengono trovate strangolate. La prossima potenziale vittima è Helen, una giovane governante che uno shock emotivo ha privato della parola. La donna presta servizio presso una grande villa dove ha il compito di accudire la sig.ra Warren, inferma. Nella villa, oltre ai domestici, vivono due uomini, il professore Albert Warren, illustre botanico, e il fratellastro di nome Steve. Mentre la paura cresce, l’assassino è vicino a Helen più di quanto lei immagini… Tratto dal romanzo Some must watch di Ethel Lina White, The spiral staircase è considerato, a ragione, come l’archetipo dei thriller ambientati in una magione isolata dove allo strapotere dell’assassino, per cultura, status, forza fisica, corrisponde punto a punto l’inferiorità della vittima, per cultura, status, forza fisica. Il confronto poi in questo caso specifico, è spinto ancor più in là visto che al disturbo psichico dell’assassino (un soggetto in apparenza normale ma che cova al suo interno un delirio con al centro una sorta di rigurgito riparatore nei confronti delle infermità e delle imperfezioni del mondo), corrisponde l’handicap psichico della vittima che le impedisce di parlare e che ha avuto origine dalla tragedia che l’ha privata dei genitori in tenera età, periti nell’incendio della propria abitazione. Le conseguenze da trarre da un film così sono parecchie. La prima che ci sovviene è che lungo il continuum delle infermità cinematografiche l’estremo che vede la cecità come deficit (Gli occhi della notte, Terrore cieco), è di certo molto più popolato dell’estremità con al centro i disturbi della parola (come controprova si potrebbe addurre la circostanza che solitamente all’interno dei film circolano “molti” chirurghi, “parecchi” oculisti, in Magnifica Ossessione addirittura tre in una volta sola, ma pochi otorinolaringoiatri (Uno dei pochi rappresentanti di tale categoria che ricordiamo è l’otorino (donna) che visita William Hurt (chirurgo!) in Un medico, un uomo (Randa Haines, 1991), anche se in questo caso la figura naturale sarebbe quella di uno psicoterapeuta, ma va riconosciuto alla sceneggiatura il merito di aver evitato il cliché…). Naturalmente ciò non deve stupire poi tanto, visto che il cinema, in particolare a livello di fruizione, rimane un’esperienza principalmente visiva così come è prassi comune ricondurre ogni film a un susseguirsi di punti di vista distribuiti sul continuum oggettivo-soggettivo, senza infine dimenticare tutte le peripezie che ruotano attorno alla perdita della vista e alla sua riacquisizione. Eppure, visti i risultati raggiunti da Robert Siodmak col suo film, senza trascurare l’immancabile apporto del direttore della fotografia Nicholas Musuraca (Il bacio della pantera di Jacques Tourneur), rimane francamente difficile stabilire se sia peggio, dal punto di vista cinematografico, il non vedere in toto, oppure il vedere senza poter chiedere aiuto. Piuttosto la compiutezza di un film come La scala a chiocciola va ricercata proprio nell’accostamento di un dispositivo afono posto nelle condizioni di esprimere il massimo dell’impotenza (Dorothy McGuire è di straordinaria bravura nel ruolo di Helen) con un dispositivo visivo, quello dell’assassino, dal quale si finisce rapidamente inghiottiti con una precisione allucinante, fino a conoscere con precisione millimetrica la visione deformata con la quale l’assassino osserva il mondo che lo circonda. Se un mondo senza parole è di difficilissima rappresentazione visiva, lo è molto meno un mondo ottico, dove è perlomeno possibile, e di fatto avviene, insinuarsi attraverso un breve movimento di macchina in avanti, direttamente nell’occhio dell’assassino. In altre parole, al dettaglio dell’occhio spalancato dell’omicida che guarda nascosto nel buio la vittima (che ritroveremo in tanti thriller del cinema italiano, da Bava - Ecologia del delitto - ad Argento Il gatto a nove code) segue un leggero movimento in avanti della cinepresa che giunge fino a alla soglia della pupilla. A seguire una dissolvenza incrociata e l’immagine dell’occhio è rimpiazzata dall’immagine della vittima. La fama di La scala a chiocciola è proprio dovuta alla scena dell’occhiata che l’assassino posa su Helen mentre questa si guarda riflessa nello specchio posto a metà della grande scala (a chiocciola), con l’altrettanto celebre elemento che rivela il nuovo status visivo raggiunto (cioè la soggettiva): il primo piano del volto di Helen con al posto della bocca una disorientante zona bianca. Da vedere come al solito una manciata di volte (soffermandosi anche sulle scene che si svolgono nella cantina della grande casa, un capolavoro di illuminazione artificiale che sembra naturale). Dopo, soltanto dopo però, passare all’indispensabile Peeping Tom (L’occhio che uccide).