Dovevano averlo a tutti i costi. Il modo non era fondamentale.

L'importante era catturarlo vivo.

Christophe Douvier stava correndo affannato all'interno dello stretto cunicolo, con la schiena leggermente piegata per evitare il reticolo di tubazioni sul soffitto. La fuga era accompagnata dal ronzio monotono e dalla luce delle plafoniere a gabbia, una ogni due metri.

Sembrava avesse guadagnato un po' di vantaggio sugli inseguitori. Si fermò un attimo, la faccia illuminata di sbieco da una luce malata, la mano in tasca per afferrare qualcosa. All'apparenza, un sassolino, che nessuno avrebbe degnato di uno sguardo e che solo l'abilità di un tagliatore avrebbe trasformato in un capolavoro di pura luce. A occhio e croce si poteva tirar fuori un diamante da dodici carati. Valore quattrocentottantamila dollari.

All'apparenza un sassolino.

In quel momento era lui l'obiettivo dellacaccia all'uomo che ormai si stava protraendo da giorni e fermarsi a riflettere non era salutare. Ma tutto era nato da quella pietra preziosa, la materia prima più ambita al mondo. I diamanti erano stati una parte della sua vita fino a quel momento. Ora probabilmente sarebbero stati causa della sua morte.

La mano affondò nell'altra tasca e ne tirò fuori un biglietto da visita sgualcito con su scritto:

Centro ricerche marine di Durban.

Lo scalpiccio proveniente dal fondo del cunicolo si stava facendo sempre più forte. Ma era ormai la corsa di un uomo soltanto. E gli altri, tutti armati fino ai denti, dov'erano finiti? Senza ulteriori indugi ricominciò a correre fino a sbucare in un corridoio molto più ampio, che avrebbe potuto essere il tunnel di una metropolitana, ma non c'erano binari. La luce era intensa. L'odore di plastica permeava tutto, interrotto ogni tanto da forti zaffate di ozono. Un grosso tubo correva senza fine lungo la galleria, segnando la curvatura. Solo le flange di giunzione delle varie sezioni e i dispositivi elettrici interrompevano la continuità di quel serpentone tecnologico. Ogni tanto si sentiva un rumore sordo e metallico, probabilmente dovuto alla cavitazione nelle tubature di servizio che correvano sul soffitto.

Douvier si voltò verso il suo inseguitore. Nessun uomo, soltanto un'ombra grigia e gigantesca si stava muovendo nella sua direzione lungo la parete.

Non era lontano.

Douvier allungò il collo. La leggera curvatura del tunnel gli permetteva di non essere visto e soprattutto di non essere un facile bersaglio. Per il luogo in cui si trovava, sarebbe forse bastata una raffica per centrarlo. In quel condotto avrebbe potuto essere colpito senza scampo anche dai proiettili di rimbalzo.

Drizzò la schiena e si mise di buona lena. Il fianco destro ricucito all'ospedale Addington di Durban gli doleva ancora. Ma non poteva essere altrimenti. Era stato miracolato e non poteva certo lamentarsi per le fitte che ora lo tormentavano.

Ora doveva davvero correre più veloce. Almeno provarci.

Una salva di proiettili sparata alla cieca schizzò verso di lui rimbalzando sulle fredde superfici di cemento del tunnel. Si gettò a terra per evitare di essere colpito. I colpi gli fischiarono sopra la testa. Si rialzò immediatamente non appena l'eco delle deflagrazioni e sibili si spensero nel fondo del tunnel. La curvatura della galleria era ancora a suo favore. Non doveva mollare.

Il rumore di passi si stava facendo sempre più sotto.

Riprese a correre. Gli sembrava di essere finito in un singolare girone dantesco. Era piombato in quel maledetto tunnel senza fine come per una punizione divina. E alle sue spalle il rumore lo incalzava senza sosta. Era stato tentato di fermarsi, di farla finita, immolandosi al fuoco del suo aguzzino. ma quel pensiero era stato cancellato in un battito di ciglia. La voglia di vivere dopo l'incidente era troppo grande.

Lui Christophe Douvier era un sopravvissuto e non avrebbe permesso a nessuno di rovinare il suo miracolo.

A nessuno.