Perché hai scelto di ambientare il tuo romanzo “Piazza dell’Unità” in questa zona circoscritta di Bologna, microcosmo di un melting pot non riuscito, luogo di contaminazioni fugaci, di preponderanti presenze straniere, di comunicazioni mancate?

Questa zona è la Bolognina, famosa più per la svolta del Partito comunista italiano che per la sua vocazione multiculturale. Io l’ho scelta perché la conosco, o meglio: l’ho conosciuta da poliziotto, nel bene e nel male. E tante di quelle situazioni che racconto le ho in qualche modo vissute, o esperite, come si usa scrivere nei verbali di polizia.

La genesi di un romanzo: com’è nata questa storia?

Da una riflessione sul mio ex lavoro e sulla volontà di raccontare storie poco conosciute che si preferiscono ignorare. Storie di pregiudizi, follie, disastri e problemi che, finché verranno considerati tali, non ci porteranno da nessuna parte. Volevo parlare degli unici giovani che vedo in giro, gli stranieri di seconda generazione. Arrabbiati, disadattati, volenterosi, cinici, bastardi, innamorati, fiduciosi, ladri, onesti, sessuomani…

Hai trattato anche la realtà cinese trapiantata in Italia: come ti sei documentato?

Sempre per il mio lavoro, ma i nomi sono assolutamente inventati.

Nel romanzo aleggia una mancata integrazione. In generale, cosa ne pensi dell’integrazione oggi, nel nostro Paese? Siamo a buon punto o no?

Finché, appunto, consideriamo l’immigrazione un problema e non una risorsa, non ne veniamo fuori. La seconda generazione di stranieri mi sembra più avanti della cosiddetta nostra. Mi sembra che mostrino più voglia di cambiamento, ma soffrono il fatto di non sentirsi né carne né pesce. Sono spiazzati, sradicati e spesso prendono il peggio dei nostri esempi. I poliziotti li osservano, li contengono, li sorvegliano e con loro si incontrano e si scontrano nel bene e nel male. Sembrano gli unici a occuparsi in qualche modo di loro.

L’amore e gli istinti più bassi. Come sei riuscito a combinarli mantenendoti sullo stesso binario?

La sessuomania caratterizza insospettabili e non, autorità e diseredati, chi più e chi meno. Il corpo è merce di scambio, ma l’amore resta: è l’unico sentimento che porta alla speranza e a una vita migliore. Anche se è un innamoramento pazzo e impossibile come quello che Roman nutre per Tsa Li, la cinese cinica e spietata.

Per la descrizione di alcuni – memorabili – personaggi reietti (penso, ad esempio, a Nicolaj), parti dalla vita o ti basi esclusivamente sulla fantasia?

Uno come Nicolaj l’ho conosciuto. Viveva solo e abbandonato da tutti in una casetta come quella che racconto.

Veniva da Bucarest, dalle fogne e non aveva né parenti né amici. Non vedeva l’ora di essere menato da qualcuno perché così si sentiva vivo. Meglio picchiato che ignorato, ci faceva capire a noi poliziotti.

Lo stile: il romanzo si caratterizza per uno stile asciutto e ad impatto, frasi veloci e trafiggenti, uno stile essenziale, efficace, mai superfluo. Cosa pretendi e da cosa rifuggi, nella tua scrittura?

Credo che ogni storia voglia la sua voce.

Il tuo ex- lavoro di poliziotto: quanto di questo è confluito nella tua passione per la scrittura noir?

Molto. Il lavoro sulla strada è una miniera di storie nere (e non solo) che viene proprio voglia di raccontare.

C’è qualcosa del tuo ex-lavoro che ti manca? E c’è qualcosa che invece non ti manca affatto?

Non mi manca niente. Ho dato e ricevuto. Restano le amicizie e le storie.

Progetti?

Un romanzo ambientato a Bologna nei giorni della morte di Lo russo. Ce l’ho in mente da tanto tempo… arriverà.

Ci saluti con una citazione dal romanzo?

“…tieni le mani in vista stronzo pezzo di merda!” No, va là, questa: “L’amore è la cosa più potente del mondo” parola di Roman.