Come abbiamo visto nei precedenti articoli, molti autori hanno amato inventare opere letterarie o di saggistica per il semplice scopo di citarne dei brani a mo’ di epigrafe. Fra questi autori ce ne sono alcuni che hanno preferito optare per qualcosa di più “poetico”: hanno cioè scelto di inventare un poeta o una poesia che facesse da apri-pista per i propri romanzi e racconti.

«Si narra che antichi esseri immondi / percorrano tuttora questo mondo, / e le Porte si schiudan certe notti, / liberando i figli dell’inferno»: così nel novembre 1931 la rivista Weird Tales vede la nascita dei primi versi inventati dell’altrettanto inventato autore Justin Geoffrey. Li si ritrova in epigrafe al racconto “La Pietra Nera” (The Black Stone), firmato da quel Robert E. Howard che in seguito divenne celebre per i suoi cicli di heroic fantasy, come per esempio quello di Conan il Barbaro.

Quella che abbiamo presentato è «una bizzarra e fantastica lirica» scritta dal poeta pazzo Justin Geoffrey e tratta da “Il popolo del monolito” (People of the Monolith). «Mi informai - ci racconta l’io narrante, - e appresi che Geoffrey l’aveva effettivamente scritta durante un viaggio in Ungheria. Non ebbi più dubbi: il monolito cui si riferiva nei suoi strani versi era proprio la Pietra Nera. Rileggendone le strofe, avvertii di nuovo il turbamento inspiegabile che avevo provato apprendendo per la prima volta dell’esistenza della Pietra.»

Raccogliendo informazioni attraverso gli “Unaussprechlichen Kulten” di Friedrich Wilhelm Von Juntz (pseudobiblion e pseudoautore che Howard inventa per l’occasione, che ripeterà altrove - lui ed altri - e di cui abbiamo parlato in un precedente numero di questa rubrica), il protagonista si reca a Stregoicavar

Robert E. Howard, impersonato da Vincent D'Onofrio
Robert E. Howard, impersonato da Vincent D'Onofrio
(che pare significare più o meno “Città delle streghe”) alla ricerca di questa pietra e incontra testimoni di un precedente viaggiatore con le stesse sue intenzioni. «Dieci anni fa è venuto un americano e si è fermato per qualche giorno - racconta un oste. - Era un giovane che si comportava in modo strano: parlava sempre tra sé. Un poeta, credo.»

Già altrove Howard aveva usato frasi pepate nei confronti dei poeti, e qui sembra affondare il pugnale fino in fondo. Quando l’oste sa che l’americano che aveva incontrato era il poeta Geoffrey, risponde: «Allora, siccome tutti i poeti parlano e agiscono in modo strano, deve aver raggiunto una fama molto grande, dato che le sue azioni e i suoi discorsi erano davvero stranissimi.»

Sappiamo, in realtà, che Geoffrey «come accade spesso agli artisti» raggiunge la notorietà dopo la morte, avvenuta cinque anni prima degli eventi raccontati, quando ormai era «pazzo furioso» per aver guardato troppo a lungo la Pietra Nera.

Lasciamo il protagonista ad affrontare da solo gli strani eventi che circondano questa Pietra Nera e andiamo al racconto “La cosa sopra il tetto” (The Thing on the Roof, febbraio 1932), che si apre con questi versi in epigrafe: «Affollano la notte / con il loro passo di elefante; / io tremo per il terrore / rannicchiandomi dentro il mio letto. / Ali colossali si sollevano / sopra i comignoli dei tetti, / che vacillano, al posarsi / degli zoccoli mastodontici.» Sono versi tratti da “Giunti da un’Antica Terra” (Out of the Old Land), sempre del nostro Justin Geoffrey. Se non bastasse la traduzione di Gianni Pilo, abbiamo anche quella di Christian Carlone (tratta da “Ombre dal tempo”]: «Nella notte si muovono pesanti / Con i loro passi da elefanti; / Di terrore tremo tutto / Ritirato nel mio letto. / Colossali ali alzate / Sulle cupole elevate / Calpestate tutte tremanti / Dai loro zoccoli da mastodonti

 

Al contrario di Von Juntz, il povero poeta pazzo Geoffrey non viene citato da Howard se non in questi due racconti. Il suo libro, come si è visto, non solo viene inventato per citarne versi in epigrafe, ma viene usato anche come pseudobiblion all’interno della storia di un racconto: questo espediente è stato usato, fra gli altri, anche da Octavia Butler per il suo “La parabola del seminatore” (Parable of the Sower, 1993, Solaria n. 4). In questo romanzo i capitoli sono scanditi da citazioni estratte da “Il seme della terra: I libri dei vivi”, testo filosofico-religioso di Lauren Oya Olamina proveniente del XXI secolo futuro.

Eccone uno dei primi estratti: «Tu cambi tutto ciò che tocchi. / Tutto ciò che cambi ti cambia. / L’unica verità duratura è il cambiamento. / Dio è cambiamento.» Il cambiamento è molto importante per l’autrice: lo si ritrova citato spesso, come per esempio «L’intelligenza è adattabilità costante e individuale».

La spiegazione per la prima parte del titolo, “Il seme della terra”, è semplice: «L’universo è il seme di Dio. / Solo noi siamo il Seme della terra. / E il destino del Seme della terra / è di mettere radici tra le stelle.» La seconda parte, “I libri dei vivi”, la spiega direttamente Olamina, nel romanzo: «Esistono il libro tibetano ed egiziano dei morti - papà ne ha delle copie - ma non ho mai sentito parlare di un libro dei vivi [...]. Sto cercando di dire e scrivere la verità [...]. Se altra gente là fuori sta già predicando la mia verità, mi unirò a loro, altrimenti farò qualche necessario adattamento, sfrutterò le occasioni che troverò o creerò, terrò duro, raccoglierò degli allievi e insegnerò».

 

Più volte abbiamo citato Clark Ashton Smith, in materia pseudobiblica, e visto che stiamo affrontando il tema delle poesie inventate a mo’ di epigrafe, non possiamo ignorare il poeta californiano.

La sua maggiore produzione di “false epigrafi” è raccolta nell’antologia di storie apparse su Weird Tales dal titolo “Zothique” (1970). Qui troviamo il “Canto degli arcieri di re Hoaraph” («L’uva ceda per noi la sua fiamma purpurea / E l’amore roseo la sua verginità: / Alla luce di lune nereggianti, in terre senza nome, / Abbiamo ucciso l’Incubo e tutta la sua schiatta.») come epigrafe al racconto “L’abate nero di Puthuum” (The Black Abbot of Puthuum, 1936); l’“Antica profezia di Zothique” («Anche il mondo, alla fine, verrà trasformato in un segno tondo») che apre “L’ultimo geroglifico” (The Last Hieroglyph, 1935).

Vengono poi presentati ben due passi dalla “Litania di Ludar in onore di Thasaidon”. Il primo è in epigrafe a “La morte di Ilalotha” (The Death of Ilalotha, 1937): «Nero Sovrano dell’orrore e della paura, signore della confusione! / Tu, come afferma il tuo profeta, / Dispensi nuovi poteri agli stregoni dopo la morte, / E nella corruzione le streghe traggono un respiro proibito, / E intessono incantesimi ed illusioni / Quali soltanto le lamie possono usare: / E per il tuo volere i cadaveri putrefatti perdono / Il loro orrore, e amori nefandi si accendono / In cripte malsane da molto tempo oscure; / E i vampiri ti dedicano i loro sacrifici... / Facendo sgorgare sangue come se grandi urne avessero versato / Il loro fulgido contenuto vermiglio / Sui sarcofagi dilavati e tumultuosi.».

Il secondo apre invece “Il giardino di Adompha” (The Garden of Adompha, 1938): «Signore delle afose, rosse aiuole / E dei frutteti soleggiati dalla fiamma implacata dell’inferno! / Nel tuo giardino fiorisce l’Albero che porta / Per frutto innumeri teste di demoni: / E come un serpente tortuoso, guizza la radice / Chiamata Baaras: / E là le forcute, pallide mandragore / Strappatesi dal suolo, si aggirano qua e là / Invocando il tuo nome: / Finché l’uomo dannato penserà che i demoni passino / Gridando con collerica frenesia e strana angoscia

 

Clark Ashton Smith
Clark Ashton Smith
È proprio con Smith, poeta prima che scrittore, che vogliamo chiudere lo speciale dedicato alle “false epigrafi”, e in particolare questo articolo dedicato ai versi poetici inventati appositamente per opere letterarie.

Nella primavera del 1944 Clark Ashton Smith iniziò una poesia che poi rimase incompiuta: eccone il brano che stuzzicò l’attenzione di Lin Carter tanto da usarlo come epigrafe (stavolta vera!) del saggio su Smith “Quando il mondo invecchia” (raccolto in Italia come presentazione della citata antologia “Zothique”). «Io passo... ma in questa torre diroccata e solitaria, Eretta a sfidare i mari furibondi del cambiamento, Rimarranno i miei volumi ed i miei filtri...»