Se le chiedessi di parlarci di lei, al di là dell’attività letteraria... (passioni, attitudini, come trascorre il tempo)...

... quando ho capito che non sono io a far passare il tempo, ma il tempo a far passare me, mi sono stufato di quell’ossessiva ricerca di progredire nel mondo, di quel caotico sperdersi tra miti d’accatto che oggi riempie le giornate di tanti di quelli che vivono nelle grandi città e devono lottare per difendere la propria vita dall’invadenza delle vite altrui. Mi hanno colpito le descrizioni che fa delle città del futuro una scrittrice di fantascienza come Carolyn Cherryh: un crepuscolo senza fine. Mi sono trasferito in un piccolo centro dell’Umbria dove posso starmene il più possibile discosto. Certo, non sono come il Thoreau di “Walden”, che praticava caccia e pesca, spaccava legna per il fuoco e se ne stava da solo a riflettere sui segni lasciati nella natura circostante dai suoi predecessori (nel suo caso, una tribù di indiani d’America che chissà quanto tempo prima aveva abitato la stessa foresta). Devo ammettere che nella mia vita la componente caccia e pesca è del tutto assente, e se anche può capitarmi di spaccar legna, non lo faccio di frequente; come la maggior parte della gente sto in fila alla cassa dei supermercati, guido una macchina di media cilindrata, a volte vado al cinema. Però cerco rimedi alla voracità dell’odierno presente. Cosa che mi porta, per esempio, a rivedere ogni tanto i vecchi film che considero particolarmente geniali. Uno di questi è “Blade Runner”, ma ce n’è parecchi altri. Non a caso, i film che lasciano veramente il segno nell’immaginario sono quelli tratti da opere letterarie.

Il suo lavoro di traduttore comprende titoli importanti (l’ultimo uscito è “Più nera la mora... più dolce il succo”, il romanzo del nero Wallace Thurman pubblicato nel 1929 negli Stati Uniti e finora inedito in Italia). Quali sono le regole base, durante la traduzione?

A chi privilegia le esigenze comunicative si oppone, da secoli, chi difende il bastione della filologia. Come raggiungere l’equivalenza? E fino a che punto, per non disturbare il transfer tra autore e lettore, un traduttore deve mantenersi “invisibile”?

Io non ho ricette pronte per rispondere a domande del genere, posso solo dire che riscrivere un libro in un'altra lingua è un’operazione più faticosa di quanto non s’immagini; non a caso Puskin, anche lui traduttore, paragonava l’attività dei traduttori a quella praticata nelle antiche stazioni di posta ai confini tra stati di lingua diversa: i traduttori, che rinnovano con l’apporto di ciò che è “altro” una lingua che altrimenti tenderebbe a fossilizzarsi, erano per lui i “cavalli da tiro” della cultura. Però qualcosa è cambiato, da allora. In un mondo globalizzato, in cui i confini culturali sembrano crollare e la ricchezza espressiva appare in via d’estinzione, a essere in gioco, più ancora dell’apertura a ciò che è “altro”, è la possibilità della nostra lingua di continuare a “dire”, con tutta la sua complessità e vivacità. Uno studioso dei problemi della traduzione come l’irlandese Michael Cronin ha evidenziato un fatto: “Le lingue che subiscono la pressione di lingue più potenti possono soccombere a livello sintattico e lessicale, tanto da rispecchiare del tutto, col passare del tempo, certi caratteri delle lingue dominanti”. I traduttori dovrebbero pensare a questo. Anche se, naturalmente, non possono essere solo loro a difendere la “diversità”, a portare il lettore a “riappropriarsi” della propria lingua.

Quanto il suo lavoro di traduttore è stato importante nella sua scrittura?

Importante, sì. Lo scrivere trasforma il sapere in linguaggio, e le opere tradotte ovviamente lasciano una traccia maggiore, nella testa di chi le elabora a livello linguistico, rispetto a quelle semplicemente “lette”. Anche se l’esperienza dello scrivere, quando non c’è nulla di già “dato”, è di natura differente... Vorrei citare una frase di Rosario Ferré: “È curioso, tradurre un’opera letteraria (anche la propria) da una lingua all’altra implica lo stesso tipo di interpretazione storica che è necessaria nel tradurre una poesia del diciassettesimo secolo, per esempio, dato che le culture contemporanee spesso racchiuse in diverse epoche temporali coesistono l’una con l’altra”. Insomma, entrambe le attività presuppongono una certa disponibilità a viaggiare nel tempo.

È da poco uscito, per Robin Edizioni, “L'uva aspra del Toni”. Come è nata l’idea?

La traccia è in una lugubre vicenda che ebbe corso circa un secolo fa nell’ambiente da cui provengo, il mondo delle famiglie affacciate sulla piazza di Mirano, storicamente contesa tra borghesia padovana e nobiltà veneziana.

Ma nel cercare di tradurre in narrativa cose che so vere ho cercato di non cedere alla tentazione autobiografica. Di fatto, certi miei antenati gestivano stazioni di posta ai confini del Tirolo, e poi giunsero a Mirano; di fatto, Giandomenico Tiepolo realizzò a Mirano degli affreschi che furono strappati dalle pareti su cui erano stati dipinti. Su questi binari a un certo punto la storia ha cominciato a correre per conto suo; ma per trasformare le ordinarie vicende della realtà in qualcosa più ampio significato ci vuole una certa dose di alchimia. Fino a che punto il tentativo sia riuscito non sono io a poterlo dire.

Il protagonista del romanzo, Antonio, è un copiatore d'opere pittoriche. Qual è lo shining dell’arte, calata in letteratura?

Per realizzare immagini e renderle convincenti, dinamiche, l’arte pittorica utilizza pigmenti, sostanze colorate che si trovano in natura. La narrativa invece fa muovere realtà immaginarie usando qualcosa che non si trova in natura, ma dentro di noi: le parole. Si può immaginare come tra le due pratiche esista un rapporto complesso e affascinante, e come il loro rispecchiarsi offra il campo a effetti sconcertanti. Si pensi al “Dorian Gray” di Wilde: fu pubblicato centotrenta anni fa eppure, col suo costruire un magico parallelo tra immagine dipinta e vita vissuta, rimane di una “modernità” incredibile. Nel caso dell’ “Uva aspra” il protagonista è un esperto di tecniche pittoriche che si mette a “dire”, a raccontare la sua “versione”, per difendersi dal senso di una colpa “originaria”. Ma la storia lo riconduce al mondo delle immagini dipinte.

I luoghi, da Trieste alla cittadina dell'entroterra lagunare veneto in cui Antonio vive: come tratta i luoghi e le descrizioni nell’opera letteraria?

Nel teatro della mente i luoghi in cui si svolge l’azione hanno una rilevanza primaria, perché sono gli scenari a giustificare quella tal piega del sentire, a far assumere un determinato peso alle parole dei personaggi. Ci sono opere in cui lo scenario, più che un correlativo, diventa addirittura il protagonista principale.

Nel caso dell’“Uva Aspra” lo scenario di Trieste forse incoraggia all’introspezione di tipo sveviano, che ha poco di “pittorico”: mentre magari l’ambiente di Mirano richiama immagini colorite, legate all’idea delle “radici”. In fondo, come ci hanno insegnato i surrealisti, il mondo lo si conosce davvero solo osservandolo da più prospettive: la dimensione effettiva della realtà non può esser data da un solo punto di vista, ma si trova proprio nella distanza che separa i vari punti di vista.

Il libro affronta anche il tema della replica degli eventi. Lei ci crede che gli stessi eventi possano replicarsi?

L’idea dell’ “eterno ritorno” è all’origine di molte concezioni, e anche di opere geniali come il “Finnegans Wake” di James Joyce. Ovviamente l’idea può portare a mitizzare il passato e a rifiutare la storia, e sappiamo che in questo può trovare sbocchi deleteri, come d’altra parte tutte le geometrie del pensiero che costruiscono forme “chiuse”. Ciò che volevo cogliere, nell’ “Uva aspra”, era un principio di continuità, più che di identità, fra presente e passato, ma ammetto di esser stato colpito dall’approccio della psicoterapista Schützenberger, secondo cui nella nostra vita personale siamo vittime di una specie di coazione a ripetere gli eventi traumatici che hanno segnato le vite dei nostri predecessori: la cosiddetta “sindrome degli antenati”. Che poi già nei primi decenni dell’Ottocento lo scrittore irlandese Maturin scriveva di una figura -- il “Melmoth”, vagabondo nel tempo -- che si ripresenta attraverso le generazioni a rivivere sostanzialmente sempre le stesse cose.

Progetti?

Certo, parecchi. In particolare sto lavorando a un altro romanzo, di cui però per il momento preferirei non dire.

Ci saluta con una citazione da “L'uva aspra del Toni”?

Visto che il filo che tiene insieme le pagine dell’ “Una aspra” è il tema del tempo che scorre continuo e consuma l’esistenza dei singoli e delle generazioni, aprirei alla pagina in cui Antonio, scampato per un soffio alla morte, riflette sulla natura dei fantasmi: “È così che la vita continua sempre, pensavo.

È così che torna sempre a divenire quello che era già. Ieri, oggi, noi tiriamo avanti pensando che la morte possa essere battuta, dimenticata, finché la vita dura. Invece non va così, perché i vuoti lasciati da quelli che se ne vanno spariscono solo quando li riempiamo con la nostra stessa sostanza. A mano a mano che diventiamo loro, rimpiazzandoli, consapevolmente o a nostra insaputa; e più viviamo, più aumenta il numero dei fantasmi che ci occupano il cuore e guidano i nostri pensieri. Non è solo nostra, la vita che viviamo”.