Ian Fleming scrisse il romanzo spinto dalle critiche alla sua abituale formula narrativa e al suo personaggio. Nulla di nuovo sotto il sole. Aveva successo con un format che esaltava l’eroe, l’avventura il divertimento (intelligente) senza preoccupazioni e i soliti soloni della critica letteraria gli sparavano contro. Bond maschilista, Bond irreale, Bond lontano dalle vette letterarie di molti scrittori hard-boiled. E anche il buon vecchio Ian cadde nella trappola di... tentare qualcosa di nuovo.

Ne uscì un romanzo che sembra fuori continuity, narrato in prima persona da una donna (con a volte risibili risultati, non facile entrare nella psicologia femminile per un intero libro) e una trama priva di vera suspense. I lettori si infuriarono e lo stesso Fleming arrivò a dichiarare di aver “trovato” il manoscritto già scritto così sulla sua scrivania. Cosa che in seguito si rimangiò ma sicuramente imparò la lezione e, cedendo i diritti cinematografici, impose che nulla fosse utilizzato della storia a parte il titolo (che sarebbe La spia che mi amò, quell’imperfetto mi sembra una stupidaggine dei traduttori italiani...).

Per dirla tutta un personaggio con i denti d’acciaio come nel romanzo c’è, ma le analogie terminano là. Jaws (Squalo nella versione italiana) è una trovata fantastica e, per chi ne ha avuto la possibilità, la novelization di Christopher Wood (pubblicata da SuperSegretissimo [n. 3, dicembre 1995] e tradotta dal sottoscritto negli anni ‘90) è davvero uno degli apocrifi migliori. Ma torniamo al film.

             

A metà degli anni ’70 Roger Moore era, indiscutibilmente, il nuovo Bond... rispetto però allo strabiliante decennio precedente qualche colpo la serie cominciava a perderlo. La spia che mi amava rappresentò un rilancio e, rivedendolo oggi, c’è da comprenderne la ragione.

Benché la storia sia per qualche verso una variante di Thunderball (qui vengono rubati dei sottomarini nucleari invece che semplici ordigni atomici) e il cattivo sia un Blofeld all’ennesima potenza, con un piano criminale idiota (distruggere il mondo emerso per crearne uno sottomarino), il film ha tutte le carte in regola per diventare un grande successo.

La sceneggiatura di Wood e Richard Maibum non perde un colpo. Battute essenziali ma perfettamente concatenate, avvenimenti raccontati per scene rapide ma estremamente spettacolari, a cominciare dall’incredibile salto con il paracadute con la bandiera inglese dalle Alpi svizzere. Certo, ogni pretesa di realtà sembra essere stata accantonata ma è, alla fine, quello che il pubblico cerca in un film di Bond.

Così alla città di Atlantide, favoloso meccanismo semovente, si abbinano visioni esotiche al Cairo e dintorni, lusso in Sardegna. E in più inseguimenti, scazzottate, battaglie campali e ovviamente squali e incursioni subacquee... un campionario di tutta la serie ben costruito attorno a un’idea nuova.

            

Siamo ancora in epoca di guerra fredda ma già si intravedono i primi segnali di Distensione. E Barbara Bach (ancora non signora Ringo Star) è magnifica nei panni dell’agente Tripla X. Ingenuamente patriottica, letale in azione e anche donna intelligente e capace di tener testa a Bond facendogli sospirare la conquista. Se pure il suo desiderio di vendetta (Bond ha ucciso per autodifesa il suo uomo, tra l’altro uno dei protagonisti della serie UFO, il tenente Foster...) è prevedibilmente destinato a stemperarsi nell’amore per il Nostro, risulta convincente. Una delle migliori Bond Girl di sempre, a parere di chi scrive.

E poi il gigantesco Jaws che ritornerà in qualche modo snaturato nel successivo film (Moonraker) costituisce archetipo del gorilla del cattivo. Enorme, muto, indistruttibile. Un personaggio da amare invece che da odiare, non per nulla lo ritroveremo a fianco di Bond.

Spunta poi il fisico di Caroline Munro apprezzatissima gun-girl di tanto cinema inglese di serie B, mentre Olga Bisera recita per poco ma con convinzione il ruolo della seduttrice.

Una parte tecnica (tutte le operazioni sottomarine) ben articolata che ricorda un po’ nelle battaglie finali certe fasi di Si vive solo due volte ma, alla fine, è esattamente ciò che il pubblico vuole. Rivivere le stesse emozioni come se fosse la prima volta con ambientazioni e piccole varianti ma anche con la confortante certezza di veder riproposto un canovaccio vincente per cui, acquistando il biglietto, si sa ciò che si compra.