E’ una bella giornata, c’è un sole tiepido. Stiamo andando a Roma, io e mia moglie. Abitiamo, infatti, a una trentina di chilometri dalla città, in un paese che sta sul mare.

Mia moglie è incinta di quattro mesi del nostro primo figlio. 

La pancia non è molto evidente, sarà, forse, perché mia moglie è magra, così non si nota. I segni del suo stato sono, piuttosto, nelle sue forme appena un poco più tondeggianti, leggermente appesantite, morbide; “curvature flessuose”, è in questo modo che io le definisco. Ma è un’intimità che conosco soltanto io. I segni più esteriori, quelli, diciamo così, pubblici, sono nel suo viso: i lineamenti, infatti, le si sono fatti dolci, più teneri. Non che prima li avesse duri, no, ma adesso è come se avessero acquistato una specie di mollezza botticelliana. Un’armonia, questa sì, affatto nuova. Ed è una novità che m’intenerisce.

Le tocco la pancia. Lo faccio con delicatezza, quasi con la punta delle dita, forse nel timore di svegliare l’esserino che so accoccolato là dentro. Ma non ne sono troppo sicuro. Mia moglie indossa un abito di maglina che le arrotonda ancor di più le forme. E’ come se quel vestito, ricoprendole, in qualche modo le accompagnasse e, nel farlo, le ridisegnasse.

Sopra, un cappotto con l’abbottonatura aperta.

Ha già la posa di una maternità matura. Ma forse sono soltanto io a immaginarlo, mentre penso al suo ombelico un po’ sporgente. Appena appena. Un piccolo rigonfiamento, come se la levatrice, al momento della sua nascita, avesse esitato, complicando un nodo di per sé semplicissimo. Che il cordone, insomma, le si fosse in qualche modo aggrovigliato tra le dita.

- E se fosse? - m’ha chiesto mentre saliva in macchina, e non si riferiva alla questione del suo ombelico. Aveva il tono ansioso. Addirittura dimesso, guardandomi di sguincio. Per la centesima volta. Ce lo eravamo chiesti per la centesima volta!

Io non le ho risposto neppure in questa occasione. Non avevo di che risponderle.

Poi ho guidato con tranquillità. Apparente. Lei m’ha preso la mano e l’ha portata sulla sua pancia.

- Forse potresti sentirlo - ha detto.

Io l’ho lasciata lì. La mano. Ma ho ancora insistito nel mio silenzio.

Non è che non avessi niente da dire, no.

No.

 Era che temevo quello che dalle parole sarebbe potuto venire fuori: volevo tenerlo il più lontano possibile da noi, almeno fin quando mi era possibile, anche se lei, con quella sua domanda ossessiva, e se fosse, stuzzicava il cane legato alla catena. Sapeva che non le avrei risposto. E fin quando lo facevo la bestia sarebbe rimasta inoffensiva.

- Si muove? - mi ha chiesto.

- No. Non lo so - mi sono ripreso.

Mia moglie ha mandato un risolino. Il primo della giornata, ridandomi un po’ di serenità e di fiducia. Era come se avesse rotto il ghiaccio, sebbene con un coltellino, invece che con una piccozza.

- E’ che sono campano - ho insistito io, in quel modo testardo di volermi fare del male a tutti i costi. Liberavo la bestia. Ubbidivo, in quel momento, al mio istinto masochista.

- Ma non è detto.

Lei si aggrappava alla speranza. Era un’altalena, quella sua, instancabile e ossessiva.

Invitava anche me ad aggrapparmi.

Saranno state le nove del mattino. Più o meno. In giro non c’era molto traffico.

Avevamo appuntamento al Policlinico per le undici e stavamo dalle parti del palazzetto dello sport, all’EUR. Nemmeno la Pontina era stata trafficata. Di questo passo saremmo arrivati molto in anticipo. Ma sembrava che avessimo fretta.

Mi venne da sorridere.

- Che hai? - chiese mia moglie.

- Immaginavo la conta - risposi.

- Che conta?

- Dei globuli rossi. Non ha detto così?

- Ah, quella - e tornò a guardare avanti. - E’ pure una questione di grandezze - precisò. - Il medico ha detto anche questo. 

Di certo non si capacitava come potessi scherzarci su. Ma io non ci scherzavo affatto. Non potevo farci niente se nella mia disperazione m’era venuto da pensare a un pallottoliere: palline rosse e palline bianche. Me lo ricordavo in questo modo. Probabilmente perché, senza volerlo, palline e globuli mi veniva da associarli. - Una conta manuale, dài! - Non capivo come si potesse fare. - Piccoli e a  mezzaluna - aggiunsi.

Andavamo al Policlinico proprio per quella conta e per quella strana forma. Là, con apparecchiature più moderne, avrebbero potuto fare elettronicamente i controlli che servivano.

La Microcitemia sa essere una brutta bestia, e noi, appunto, la sentivamo acquattata da qualche parte.

Ce lo aveva detto un medico stando seduto sopra una scrivania, le gambe ciondoloni e i piedi intrecciati che faceva andare avanti e indietro. Le mani sotto il sedere. E con indosso un camice bianco. Forse quella sua aria, all’apparenza disinvolta, sarebbe dovuta servire a darci un po’ di serenità, ma a me, invece, distraeva: gli guardavo quei piedi che oscillavano e mi chiedevo quando avrebbero smesso.

- Qui da noi non abbiamo i macchinari - aveva detto. - Certo che…

- Certo che…? - avevo chiesto, pieno di timori.

- Il fatto è che sua moglie è sarda e lei è campano.

- E’… male?

- Normalmente no - disse sorridendo. - Ma…

- Ma?

- Anche i suoi…

- Anche i miei?

- Anche i suoi globuli rossi sembrano più piccoli.

-  E questo… è male? - tornai a ripetere. - In fondo neppure io sono tanto grosso. - Cercai di scherzare. E’ che già sentivo il fiato della bestia

Il medico non aveva mostrato di apprezzare particolarmente la battuta. Era saltato giù dalla scrivania, convinto, certo, che ormai non fosse più necessario mantenere quella nonchalance.

- Un controllo più approfondito potreste farlo al Policlinico - disse. - Se volete posso informarmi per affrettare l’appuntamento.

- Sì - risposi meccanicamente, anche se mi chiedevo se tutto questo avesse un senso. Guardai verso mia moglie: aveva gli occhi lucidi. Speravo non si fosse già pentita di avermi sposato. Ma che potevo farci? Che colpe avevo? E se anche fosse, ad averle non eravamo in due?

Oh, ma che andavo pensando?

Il medico, intanto, s’era fatto vicino e mi batteva sulla spalla.

- Non è detto - disse. - I conteggi e i controlli manuali non dànno troppa sicurezza, hanno un’alta percentuale di errore.

Volentieri gli avrei chiesto se l’errore poteva anche essere in senso inverso, nel caso, che sarebbe accaduto?

- E se non fosse? - Sembrava quasi che, allo stesso modo di mia moglie più tardi, cercassi da qualcuno la risposta capace di liberare la bestia..

Lui allargò le braccia.

- Be’ - rispose, -  in questo caso, le probabilità che nasca sano raggiungono il cinquanta per cento. - Come se fosse un’alta probabilità e, per questo, accettabile.

- E per l’altro cinquanta?

- Al venticinque che sia un portatore sano, un po’ come sua moglie, mi capisce?

- Sì.

Non fece cenno all’altro venticinque.

- Soltanto nel caso risultasse anche lei microcitemico - tenne a precisare. Poi aggiunse: - La microcitemia in sé non è negativa, è addirittura una difesa che l’organismo ha messo in atto contro la malaria, è per questo che è endemica in certi posti, come, appunto, la Sardegna e la Campania, regioni che sono state malariche. Il problema nasce quando si incontrano due portatori…- E non concluse.

A volerlo m’avrebbe spiegato anche il perché e il per come. Ma io non lo volevo; non mi interessava: per me, quella cosa, era e restava una bestia acquattata da qualche parte che poteva saltarci addosso in qualsiasi momento. Anzi, forse l’aveva già fatto e non ce ne eravamo accorti.

Era per questo che andavamo al Policlinico: per una risposta elettronica, sebbene non fossimo granché sicuri di volerla per davvero, perché certe volte l’incertezza è l’unica via di fuga, seppure quella dei vigliacchi. E noi, in quei giorni, senza dubbio lo eravamo.

 

Attorno alle nove e trenta stavamo dalle parti della Stazione Termini. Molto in anticipo, quindi, sull’orario. Nemmeno avremmo potuto ingannare il tempo con una colazione al bar.

In alto si vedeva volteggiare un elicottero: il flap flap delle pale era come se smuovesse un acquitrino denso: s’era abbassato e aveva piegato di lato. Pareva che ci osservasse. Un occhio attento.

Un altro elicottero era poco più distante. All’orizzonte se ne vedevano degli altri. Troppi.

- Chissà cosa è successo - fece mia moglie. Me l’ero chiesto anch’io, sebbene vagamente.

Guardavamo in alto sporgendoci dai finestrini e parandoci gli occhi al riverbero del sole. Quelli più lontani parevano moschini in un cielo terso; quelli più vicini coleotteri che s’impennavano; che alzavano e abbassavano i propri musi quasi ad annusare un’invisibile e improbabile pozza d’acqua. Ne immaginavo i cerchi concentrici che s’allargavano a ogni leggero tocco.

- Una rapina - dissi. Che altro poteva essere?

Nel piegare leggermente la testa, i capelli di mia moglie erano caduti sul davanti, a coprirle un lato della guancia. Allungai una mano per spostarglieli e buttarglieli di nuovo sulle spalle. Li ha lunghi, i capelli, mia moglie. Se li stira addirittura con un ferro appena caldo per farli più lucidi. 

Mi ha guardato un poco di sguincio. Ha gli occhi grandi e scuri. Un morbido colore vellutato. E caldo. Mi piacciono. Gliel’ho detto un mucchio di volte. Anche se sono convinto di non averglielo mai detto abbastanza.

Amo le sue fossette ai lati della bocca; e le due rughette agli angoli degli occhi.

Questo sono convinto di non averglielo mai detto. A volte mi chiedo perché.

- Chissà che è successo - ripete. E’ come se volesse superare un momento d’imbarazzo. Lo so.

Poco prima delle dieci siamo dalle parti del Policlinico. E quell’anticipo di tempo cerco di spenderlo rallentando la marcia dell’auto. Così, quando una pattuglia della polizia mi fa segno di accostare, mi chiedo se non avessi esagerato. Magari, mi dico, quel mio passo lento potrebbe aver creato intralcio allo scorrere fluido del traffico. Ma basta un’occhiata per rendermi conto che non è così: ci sono poche macchine là attorno.

E’ un controllo di routine.

Il poliziotto che ha sbandierato la paletta si fa a lato della mia macchina portandosi due dita alla visiera del berretto.

- Buongiorno - dice.

- Buongiorno - gli rispondo io.

Di macchine ce ne sono addirittura due. Una vera esagerazione. E poi tutti hanno delle strane facce tese; le mani artigliate sulle mitragliette. E’ un atteggiamento del tutto nuovo. Mi ricordano gli uomini di pattuglia in Sardegna. Ma lì ci sono i baschi blu. La celere di Padova per stanare banditi. Magari con il gas. Lì c’è Mesina. Ma qui no. Qui non c’è quel tipo di gente. E allora?

Il poliziotto mi chiede i documenti. Ha l’accento napoletano. In certi casi che si fa? gli si dice che potrebbe essere un conterraneo? Magari un paesano. A volte potrebbe funzionare. Ma funzionare per che cosa? Non sono mica in difetto!

Glieli consegno. E mentre lo faccio gli chiedo che è accaduto.

- Ma come, non lo sa? - mi risponde lui.

- Che dovrei sapere? - chiedo

- Hanno rapito l’onorevole Moro!

- Moro…? - E non è una domanda, la mia, piuttosto è un’esclamazione. Vorrei chiedergli se si tratta proprio di quel Moro. Domanda inutile e stupida. E’ che non me ne faccio capace. Possibile? Nemmeno questo mi viene di chiedergli. E neppure come e dove sarebbe successo.

- Sì - risponde lui. Mi guarda mentre mi riconsegna la patente e il libretto. Mi scruta. Forse si sta chiedendo il senso di quella mia sorpresa, ritenendola, magari, addirittura falsa.

- Non ha sentito la radio?

- No - faccio io. Resto titubante. - Non ce l’ho. - In macchina intendo.

- Circa un’ora fa. La scorta ammazzata. E’ un giorno che passerà alla Storia - dice in tono melodrammatico. Di certo l’ha sentita alla radio. E’ il sedici marzo del 1978 e, per quello che riguarda me e mia moglie, passerà alla nostra Storia! - Può aprire il portabagagli, per favore?

- Sì - rispondo meccanicamente. E allo stesso modo mi muovo: scendo e lo apro.

Lui e un altro poliziotto dànno un’occhiata rapida all’interno. Poi sembrano soddisfatti, e forse anche un poco più rilassati: che si aspettavano di trovare, il corpo dell’onorevole Moro?

A ogni modo, quando finalmente mi fanno cenno che possiamo andare, provo come il senso di un rilascio. Una forma di liberazione.

Che c’entro io? Che c’entriamo noi? Avrei voluto chiedergli. Ma non faccio nemmeno questo. Non mi fido. Abbiamo già i nostri guai cui pensare, per cercarne degli altri. Cosa posso farci, se non mi sento partecipe di quella tragedia nazionale? Sentirmi colpevole perché un dramma personale, un piccolo dramma personale, sovrasta quello nazionale? No, perdio! l’esame del sangue per me in quel momento è più importante di qualsiasi rapimento del mondo!

L’immagine di un bambino dalla faccia larga, sproporzionata, e i lineamenti marcati, rozzi, come quelli di un contadino e i denti simili a quelli di un rastrello, buttati un poco all’infuori, una specie di dentiera da vecchio. Un colorito giallognolo. Bisognoso di continue trasfusioni. Sarebbe vissuto poco, non molti anni. Quanti sarebbero bastati, però, per morire in un inferno. Suo e mio. Nostro, mio e di mia moglie. Questa era l’immagine che mi tormentava. E questo contava. Soltanto questo!

Ma non era ancora l’ora. Non era ancora il tempo. E pregavamo, io e mia moglie, perché quel tempo mai arrivasse.

Lo abbiamo fatto per giorni, tutti quelli che ci hanno diviso dal successivo appuntamento, quello per ritirare le risposte. Mentre io mi affannavo a far sparire dai giornali che circolavano per casa, tutte le notizie che riguardavano nascite sbagliate; orrori ed errori commessi dalla natura. Ci mettevo impegno. Ma non mi preoccupavo di nascondere quelle che riguardavano il rapimento. Quel rapimento.

Così ne parlavamo, io e mia moglie. Era una specie di antidoto al veleno che ci portavamo dentro.

Quello che non mi riuscì fu impedirle di venire con me all’appuntamento che avevamo al Policlinico. Se avessi potuto le avrei nascosto persino un possibile esito negativo. Lo so, era un modo sciocco di comportarmi, ma l’avrei fatto, giuro che l’avrei fatto, perché questo sarebbe significato rinviare, fosse anche di un solo giorno, una verità che le avrebbe fatto male.

In macchina siamo rimasti in silenzio. Muti. C’eravamo già detti tutto quello che avevamo da dirci: avevamo risvegliato i nostri fantasmi e sciolto la bestia.

Mi disse soltanto una cosa. Una cosa curiosa. Che lì per lì mi sorprese.

- Ho letto che in Via Fani, proprio sul posto dove sono stati ammazzati quelli della scorta e rapito l’onorevole Moro, un salice s’è seccato. Inspiegabilmente. - Me lo disse guardando avanti e con l’aria assorta, come se mi confidasse un’intuizione. - Subito dopo, capisci?

No, non capivo.

Lei s’è girata a guardarmi, quasi mi chiedesse aiuto.

- Noi non eravamo in Via Fani - ha detto. - Noi eravamo in tutt’altro posto.

Così ho capito. Anche questa può essere una speranza. Una via di fuga per gente che non ha coraggio.

- No, non c’eravamo - le ho risposto. - Eravamo in tutt’altro posto!

E lei è sembrata essere più tranquilla, più fiduciosa. E s’è rilassata. M’ha preso una mano e se l’è portata sulla pancia. Fu allora che percepii, per la prima volta, un piccolissimo movimento. Una specie di assenso. Almeno in questo modo io lo interpretai.

Guardai mia moglie: anch’io, adesso, ero pieno di fiducia.

- Sì - dissi. - Lo sa pure lui!