– Torna indrio, putana imbriagona!

Lo aveva svegliato il cuscino fradicio e si era accorto di quella voce furiosa che si invischiava nel suo sonno per confondergli sogni, visioni, realtà, il buio e l’afa della notte.

– Ara che te copo a ti e al mato!

Denis buttò le gambe oltre la sponda del letto e rimase seduto grattandosi gli occhi pesanti e sbadigliando.

– Putana!

La lingua impastata e la sete gli ricordarono il troppo vino della sera prima e Ondina che lo guardava sempre con rimprovero quando esagerava coi calici, ma tanto non era lì e allora chi se ne frega. Si alzò e andò in cucina, aprì il frigorifero e bevve una lunga sorsata dalla bottiglia di minerale. Ondina si lamentava quando girava in mutande davanti alle finestre aperte, ma chi lo vedeva a quell’ora?

Tornò a letto e guardò la sveglia sul comodino. Le due.

Si distese e cercò di non pensare al caldo che gli si appiccicava addosso e magari anche alla solitudine, ma era più difficile.

L’uomo in strada riprese a urlare e Denis pensò che era proprio un mona a parlare così alla sua donna, lui ce l’aveva, cristo e se anche gli faceva un corno, pace, dài, l’importante era averla per casa.

Ondina l’aveva avuta in casa per sei anni ed era stata la cosa più bella della sua vita.

Si girò su un fianco e provò a dormire.

* * *

Denis guardò la lama e concluse che era proprio andata, si avvicinò alla mola che teneva in un angolo del buco che era il suo laboratorio e cercò di resuscitarle il taglio una volta di più. Sorrise, perché gli piaceva il rumore del ferro contro l’arenaria, gli era sempre piaciuto, anche da bambino. Cossa te farà de grande, cocolo? El conzapignate. Come papà e come nonno.

Si avvicinò alla porta per guardare il coltello in piena luce.

Era una mattina d’estate grigia e battuta dalla bora, come ne capitano a Trieste dopo giorni di caldo torrido, Denis pensò che quella notte avrebbe dormito meglio e rimase a fissare una pozzanghera davanti alla porta.

Lui aveva tutto lì, casa e bottega, ci era nato al numero 53 di quel cortile delle case popolari, proprio nel 1953, che coincidenza. Una volta Ondina gli aveva detto che quelli nati nel ’53 sono tutti matti, ma per scherzo.

– Te ga finì?

– Sì.

La signora Kosovel, tutta linda nella traversa fiorata, era arrivata ficcandosi nella crocchia candida una ciocca ribelle.

– Posso portarte la pignata?

– Sì, ma domani.

– Se no te fossi qua, Denis…

E se ne andò a preparare il pranzo, argomentando su quanto sarebbe stato brutto non avere più un conzapignate nella corte.

Denis si ricordava la signora Kosovel da giovane, col cocon moro e la ciocca cocciuta da rimettere a posto e i cortei e le pignate sempre in tochi, solo che quella volta li metteva a posto suo padre e lui lo guardava con la bocca spalancata. Tante volte lo aveva raccontato a Ondina, del lavoro, di quelle sere passate a giocare e a mangiare angurie che mai più con quel gusto, tante volte e lei si accendeva una cicca e lo fissava, ma non lo ascoltava e forse nemmeno lo vedeva.

Ma solo un mona giudica la donna che ama e per lui Ondina era giusta e basta.

– Gnente pranzo?

Sorrise alla signora Kosovel che si era affacciata per scurlar la strazza e rientrò in bottega, perché aveva da fare il filo a un paio di forbici.

Era già l’una e mezza quando decise di prepararsi qualcosa da mangiare.

Ondina era brava a cucinare, te seca perder la coga, gli aveva detto prima di andar via, ma sapeva che non era vero e gli aveva chiesto subito scusa.

Cominciò a pulire i sardoni che aveva comprato quella mattina presto, voleva farli fritti con l’insalata, come gli aveva insegnato sua mamma. Mentre li lavava sotto la spina dell’acqua, si ritrovò a guardare la foto infilata su un ripiano della credenza, l’unica foto che aveva di Ondina.

Due anni prima era andata con le vecchie compagne delle medie a magnar fora, a Monrupino, un posto bel una volta tanto, ma si era scusata subito, perché non era colpa sua se non la portava mai fora, se era selvadigo.

Doveva aver passato proprio una bella serata, era tornata tardi, ubriaca quel che basta. Fame un pompin. Sì sì sì sì. Il giorno dopo gli aveva tenuto il muso, mentre lui ridacchiava chino sul lavoro, che non lo vedesse, per l’amor de dio.